Analisi
Perché le elezioni in Francia potrebbero rilanciare il nome di Mario Draghi in Europa
In un’eterogenesi dei fini, il successo di Mélenchon rafforza la posizione dell'ex premier italiano per la Commissione di Bruxelles
C’è un italiano che, alla fine, potrebbe essere favorito dalla vittoria di Jean-Luc Mélenchon, il leader della sinistra radicale francese che è riuscito a conquistare il primo posto per il Nuovo Fronte Popolare battendo la destra di Marine Le Pen. Questo italiano è Mario Draghi che, a sorpresa, una concatenazione di cause (eterogenesi dei fini) rimette in lizza per la guida della Commissione di Bruxelles. Emmanuel Macron, suo sponsor da diversi mesi, non sarà fortissimo dopo le elezioni europee, ma la vittoria della sinistra francese ai ballottaggi di domenica 7 luglio ha consentito al presidente della Repubblica di vincere la sfida lanciata al Rassemblement con lo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale. Ed ora lui può giocare le sue carte per l’assegnazione delle cariche europee, compresa la candidatura dell’ex presidente della Bce, se la rielezione di Ursula von der Leyen dovesse trovare un ostacolo.
Mélenchon, il populista di sinistra, alla fine “rischia” di fare il gioco del supertecnico italiano? A evocare Draghi – come alternativa a von der Leyen, che non voteranno quando il Parlamento europeo si riunirà il 18 luglio – sono i Cinque Stelle appena entrati nel gruppo parlamentare The Left, dove sono alloggiati proprio gli eletti nelle liste di Mélenchon. «Macron ha vinto perché ha fermato la destra. E se dovesse saltare la candidatura di Ursula, considerando che la presidente uscente può contare solo su un margine di 38 voti davanti ai possibili franchi tiratori, che potrebbero oscillare fra 60 e 70 secondo gli addetti ai lavori, arriva Draghi, cui guarda il presidente della Repubblica francese». È lo scenario che delinea, da Bruxelles, Gaetano Pedullà, vicecapo della delegazione M5S al Parlamento europeo.
L’ostilità dei pentastellati nei confronti di von der Leyen è nota, anche per via della divergenza sui fondi a favore dell’Ucraina confermati dalla presidente uscente, ma è un indizio interessante che l’ipotesi di votare Draghi, almeno come subordinata, non venga affatto scartata all’interno di un grande partito al momento schierato a favore del bis di Ursula: il Pd. «Va bene che è necessario un accordo fra le famiglie europee, ma occorre anche uno scatto in più, un salto di qualità che spetta alla presidente uscente della Commissione annunciare, altrimenti c’è Draghi», osserva la deputata Lia Quartapelle, esperta di politica internazionale ed europea, delusa (e non è la sola nel Pd) dalle mosse minimaliste di Ursula. È un’apertura. Ma siamo sul piano delle ipotesi, anche perché non è del tutto chiaro quanto davvero conterà Macron, lo sponsor di questa eventuale operazione. Al momento «esce indebolito dal voto francese», osserva l’ex ministro Gaetano Quagliariello, per il quale «il ridotto potere contrattuale» sulla scena europea del presidente francese nasce proprio dalla politica interna. L’inquilino dell’Eliseo «molto probabilmente dovrà fare i conti con una difficile coabitazione». La sua scommessa sulla «disunione del fronte popolare al momento della formazione del governo, con l’emarginazione dell’ala più radicale, è tutta da vedere e non sarà facile ignorare le richieste di Mélenchon», sottolinea il presidente della Fondazione Magna Carta.
Proprio l’esperienza unitaria del Nuovo Fronte Popolare è il messaggio d’Oltralpe che raggiunge e galvanizza il centrosinistra italiano, negli stessi giorni in cui la sfida Salvini-Meloni si è spostata in Europa con il passaggio della Lega e del Rassemblement nel nuovo gruppo – artefice l’ungherese Viktor Orbán – dei Patrioti per l’Europa, dove sono entrati anche gli spagnoli di Vox, strappati ai Conservatori di Giorgia Meloni, che ne escono numericamente ridimensionati. Destre divise. «Ma per la presidente del Consiglio italiana sarebbe andata peggio se Le Pen avesse conquistato la maggioranza assoluta diventando, nei rapporti fra i governi europei, una concorrente, attraverso Jordan Bardella. La sua sconfitta in Francia piuttosto indebolisce Matteo Salvini», sottolinea Quagliariello.
Francia e Italia. La foto scattata davanti alla Cassazione per il via al referendum sull’autonomia differenziata, con tutti gli esponenti dei partiti di opposizione (tranne Carlo Calenda), pochi giorni prima dei ballottaggi di Parigi, già è stata presentata come l’istantanea di una versione italiana del fronte popolare francese. Anche se, davanti alla Direzione del Pd, la segretaria Elly Schlein ha subito detto che per vincere non basta essere «contro», occorre essere «per».
Niente semplicismi, ribadisce Calenda. «Immaginare di sovrapporre modelli diversissimi tra loro come quello francese e quello italiano – polemizza il leader di Azione – è più un vezzo/vizio del racconto politico che una prospettiva per il futuro. Faccio un esempio per spiegare meglio. Prendiamo il referendum sull’autonomia. Il cosiddetto Fronte Popolare in versione italiana da Maurizio Landini a Matteo Renzi, da Riccardo Magi a Michele Santoro, non può essere credibile perché non produrrà mai una proposta di governo e questo accadrà perché non sono d’accordo su nulla. Per guidare un grande Paese come l’Italia non può bastare il collante dell’antimelonismo. Io sono assolutamente contrario all’autonomia di Meloni e Salvini, ma in quella foto non ci sono. Quello schieramento ha idee opposte praticamente su tutto: politica industriale, collocazione internazionale dell’Italia, ricette economiche. E come la governi l’Italia con un fronte popolare che va da Avs a Italia Viva passando per i 5 Stelle? Attenzione, non è una questione di nomi. La politica non si fa mai “per fatto personale”. Ma richiede credibilità e noi, nel campo largo, ristretto, lungo o lunghissimo, non abbiamo alcuna intenzione di stare. Cosa diversa è lavorare con le altre opposizioni su provvedimenti concreti. A Schlein ho detto: iniziamo dalla sanità, scriviamo un emendamento che abbia una copertura finanziaria solida. Ma facciamolo seriamente».
Prudente è Benedetto Della Vedova, partendo proprio dalla Francia. «Intanto dobbiamo vedere come finisce a Parigi, se Mélenchon avrà un atteggiamento costruttivo oppure distruttivo». L’esponente di +Europa vede un Fronte Popolare nel quale «sono state messe insieme tante cose e non sempre conciliabili». Del resto, «il più grave limite politico della sinistra francese è la presenza di un partito socialista debole e da ricostruire», ricorda Claudia Mancina, “liberal” del Pd, protagonista dell’Associazione Libertà Eguale. Nella stagione di François Mitterrand, infatti, la sinistra vinceva sotto la guida dei socialisti.
Il Nuovo Fronte Popolare è nato in funzione difensiva contro la destra lepenista, per evitare almeno che il Rassemblement raggiungesse la maggioranza assoluta e poi è andata meglio del previsto, ma «non basta sfruttare le regole, il doppio turno che consente i patti di desistenza contro la destra; per governare occorre un progetto politico», avverte Quartapelle. E quanto alle regole, che comunque contano, in Francia «il doppio turno che ha favorito la sinistra funziona in modo democratico perché le desistenze alla fine sono accettate o respinte dagli elettori con il voto», ricorda Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, da sempre schierato per quel modello costituzionale e istituzionale. In Gran Bretagna il maggioritario secco ha liberato i laburisti dal problema delle alleanze, con l’eccezione di alcune «desistenze occulte con i liberal-democratici che spiegano il successo elettorale anche di questa terza forza», osserva Della Vedova, fautore di un forte soggetto centrista in alleanza con il Pd: «In Italia – ricorda, guardando alla svolta di Londra – si vince con una posizione anche liberal-democratica. Ci rifletta il Pd prima di considerare unica via l’abbraccio con Giuseppe Conte, che ha scelto di fare il descamisado». E, piuttosto che parlare di campo largo o stretto, «il centrosinistra dovrebbe puntare sui giocatori, che devono fare la differenza», aggiunge Pasquino. Introducendo il tema della classe dirigente e della «qualità» del personale politico che si candida a sostituire il centrodestra.
Occorre coraggio anche e soprattutto nella definizione dell’agenda politica. In Gran Bretagna, dopo 14 anni, Keir Starmer ha riportato il Labour al governo su posizioni riformiste e non massimaliste, conquistando il consenso degli elettori anche sul tema dell’immigrazione (nel Paese della Brexit). Non ci si fermi all’archiviazione – promessa e attuata pochi giorni fa – del Piano Ruanda, al quale si era aggrappato il suo precedessore conservatore Rishi Sunaknella speranza di arrestare il crollo dei consensi. Nel corso della campagna elettorale, il leader laburista ha anche annunciato il controllo severo delle frontiere e la lotta alle organizzazioni criminali che gestiscono il «traffico delle persone» dalla Francia all’Inghilterra passando per la Manica. «Per la prima volta un leader laburista prende sul serio il tema dell’immigrazione rispondendo all’inquietudine della popolazione e vale come insegnamento anche per la sinistra italiana».
Con Marco Minniti al Viminale il Pd si spinse a evocare la chiusura dei porti. A Palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni che non a caso oggi invita a guardare con interesse l’esperienza vincente dei nuovi laburisti «che abbandonano i radicalismi». Va bene che è semplicistico adottare modelli stranieri, ma il centrosinistra italiano rischia di lasciarsi sfuggire Starmer. Per collaborare sull’emergenza migranti, il 18 luglio a Oxford, in occasione dell’European Political Community, il neopremier – alla guida di un governo che ha definito «non dottrinario», quindi pragmatico – vedrà Meloni. I due capi di governo si sono già incontrati al vertice Nato del 9 luglio a Washington (come annunciato da Palazzo Chigi, all’indomani della vittoria elettorale laburista). Nell’agenda di Starmer, il turno di Schlein verrà più avanti.