Fondato da due mamme inglesi, il gruppo conta oltre 100mila adesioni e si espande anche negli Stati Uniti. Ma oltre a nuove leggi è necessario l’impegno delle Big Tech

«La mia seconda figlia ha 9 anni ed è l’unica in classe senza cellulare. Ma un giorno l’ho trovata che si misurava i fianchi: poi ha iniziato con la dieta, perché le sue amiche sono ossessionate da influencer di TikTok che promuovono un certo tipo di corpo e forme di sessualizzazione dell’infanzia». Fino a pochi anni fa Lianne, avvocata, viveva in Irlanda, dove lavorava per grandi compagnie tecnologiche come Google, Meta, TikTok. «Mi sono presto resa conto che altri professionisti come me non davano telefoni ai loro figli perché avevano informazioni riservate sui danni». 

 

È uno dei membri più attivi di SmartphoneFreeChildhood, un movimento fondato a febbraio da due mamme inglesi, la giornalista Daisy Greenwell e la psicologa Clare Fernyhough, per avviare un dibattito sull’opportunità di dare i cellulari ai minori di 16 anni. In pochi mesi il gruppo è cresciuto fino a superare i 100 mila iscritti, ha centinaia di sottogruppi in tutto il Regno Unito e si sta espandendo all’estero. Paradossalmente, cresce grazie agli smartphone, via WhatsApp: i genitori condividono in chat consigli su come affrontare il conflitto con i figli, risorse per approfondire il tema dei danni da social media, facsimile di lettere da inviare al preside o al proprio deputato, e strategie per convertire altre famiglie evitando che i figli senza connessione finiscano isolati e bullizzati. Molti di loro mirano a ottenere dalla politica un bando totale dei cellulari fino ai 16 o anche ai 18 anni, a casa e a scuola. Sempre a febbraio il governo conservatore ha emanato delle linee guida per le scuole, non obbligatorie, suggerendo strategie per bandire l’uso dei telefoni, collegati a violenza e a un peggioramento dei risultati accademici: ha fatto scalpore l’adesione di un liceo prestigioso come Eton e di altri istituti privati, che possono finanziare armadietti per custodire i telefonini o hanno le risorse per gestire le proteste dei genitori. Le statali, già molto sottofinanziate, sono indietro.

 

Chris è un ingegnere informatico, padre di un bambino e una bambina di 11 anni. A dicembre, quando ha ottenuto la piena custodia dei figli, ha scoperto che erano dipendenti dalla tecnologia. «Erano connessi dalle 12 alle 16 ore al giorno. All’inizio gli ho concesso un’ora al giorno; ma mio figlio si svegliava alle 3 di notte per giocare ai videogiochi. Ho deciso di dare un taglio netto: non avranno un telefono fino ai 18 anni, quando non sarò più legalmente responsabile per loro. Gli smartphone sono progettati per creare dipendenza. I social media sono estremamente dannosi. Sono come gomme da masticare per il cervello. Non c’è nessuna ragione per dare a un minore un ciuccio digitale pieno di porcherie solo perché i ragazzi sono ragazzi». Secondo dati ufficiali, nel Regno Unito il 98% dei dodicenni ha uno smartphone; fra questi, il 25% dei bambini di 3-4 anni e il 38% di quelli dai 5 ai 7, mentre la metà dei minori di 13 anni ha anche accesso ai social media, in violazione dei limiti di età.

 

Molti dei genitori coinvolti citano lo psicologo Usa Jonathan Haidt, docente alla New York University, che nel saggio “The Anxious Generation” sostiene vi sia una relazione di causa-effetto, nei Paesi del mondo con caratteristiche socio-economiche simili, fra l’aumento dei disturbi di salute mentale dei minori e la messa in commercio del primo smartphone, entrambi a partire dal 2010. Haidt ci ha ribadito la sua convinzione che i livelli di ansia e depressione nei minori registrati da allora siano da attribuire a un fenomeno che chiama «la grande riprogrammazione» del cervello dei bambini, ottenuta sostituendo un modello di infanzia basato sul gioco libero con uno dominato dalla tecnologia intrusiva dello smartphone, un salto di qualità negativo anche rispetto ai «dumb phones», i primi cellulari senza Internet. Sostiene che questo «lavaggio del cervello» sia una emergenza immediata e che questa tendenza vada invertita prima dell’avvento di massa dell’intelligenza artificiale. Il suo messaggio è sintetizzato in quattro regole. Niente smartphone prima del liceo. Niente social media prima dei 16 anni. Scuole senza telefoni. Più indipendenza, gioco libero e responsabilità nel mondo reale.

 

Giochi di bambini ripresi con il cellulare

 

Significa rovesciare il paradigma che porta molti genitori a credere che i figli siano più sicuri con uno smartphone che fuori casa. Ancora Lianne: «Ho sentito amici dirmi “darò un telefono a mia figlia perché temo i predatori sessuali”. Abbiamo dato ai nostri figli l’accesso a pornografia, violenza, decapitazioni, razzismo, sessismo, invece di lasciarli andare al parco dove pensiamo che i predatori si nascondano nei cespugli. Invece sono nel telefono, in tasca, o nella loro camera da letto, con loro 24/7». Sembra una visione apocalittica, ma i dati ufficiali confermano il quadro generale. A marzo Ofcom, l’agenzia britannica per le comunicazioni, ha pubblicato una analisi qualitativa con un campione di 232 minori dagli 8 ai 16 anni. Tutti avevano visto qualche forma di contenuto violento e hanno dichiarato di considerarlo inevitabile. In particolare, i maschi dai 13 ai 15 anni erano spinti a emularlo o condividerlo, per ottenere popolarità fra i compagni: non farlo significava l’isolamento sociale. Una tendenza in diminuzione dopo i 16 anni. Casi di depressione e ansia, fino al suicidio, sono ampiamente documentati. Il più noto in Inghilterra è quello di Molly Russell, 14enne che si è suicidata nel 2017. 

 

Dopo la sua morte i genitori hanno trovato nella sua timeline di Instagram migliaia di video che promuovevano autolesionismo e suicidio. Il coroner dell’inchiesta ha suggerito un collegamento diretto fra quelle immagini e la depressione che l’ha portata a togliersi la vita, e il padre Iain ha fondato una charity per la prevenzione dei suicidi degli under 25. Le giovani ragazze sono particolarmente esposte, perché, nota Haidt, l’esposizione ai social amplifica ideali di bellezza irrealistici in una fase di costruzione dell’identità, e perché l’aggressività femminile tende a manifestarti in attacchi alla popolarità e alla reputazione, mentre i ragazzi tendono a competere sul piano fisico. Malgrado quello che è successo a Molly, Russell non è favorevole ad un bando, che priverebbe i ragazzi, specie quelli che per ragioni economiche non hanno altro accesso a un computer, delle molte opportunità di apprendimento, attivismo e relazioni offerte dagli smartphone. Come altri esperti, punta il dito sui due elefanti nella cristalleria: i governi, finora molto lenti a reagire, e le piattaforme social, che hanno incentivi economici a trattenere i giovani sulle loro piattaforme. Nel novembre 2023 Arturo Bejar, un whistlebowler di Meta, ha rivelato al Congresso Usa come il social abbia ignorato la sua denuncia delle avance sessuali subite anche da sua figlia adolescente su Instagram, e accusato lo stesso Mark Zuckerberg di essere consapevole dell’entità dei rischi ma di non aver fatto nulla per prevenirli.

 

La soluzione, secondo molti addetti ai lavori, è fare pressione sui legislatori perché impongano alle social media companies una serie di interventi strutturali, dalla moderazione dei contenuti online a modifiche dell’algoritmo di raccomandazione. È l’approccio già adottato negli Stati Untiti da organizzazioni come Design it for Us, una ampia coalizione di giovani attivisti che, oltre che a campagne di informazione sui danni da social media, lavora direttamente con i legislatori per imporre a Big Tech la creazione di prodotti social sicuri per i minorenni. «Siamo nativi digitali, utenti e vittime, e dobbiamo avere una voce», è la (legittima) rivendicazione. 

 

A monte, la consapevolezza che un bando sarebbe controproducente: i ragazzi troverebbero il modo di aggirarlo, e finirebbero per nascondere ai genitori tutto quello che accade online. Un problema di fiducia con cui già si confrontano milioni di famiglie. Per Lianne c’è la necessità di una svolta culturale collettiva: «Siamo tutti così presi dai telefoni che ci siamo fatti derubare delle amicizie, della relazione con i nostri figli, di attenzione, emozioni, empatia, delle nostre esperienze di vita reale. Ora io e i miei amici cerchiamo di essere un modello positivo per i nostri figli. Non portiamo più i nostri telefoni ovunque, non usiamo WhatsApp quanto prima. La tecnologia è qui per restare, ma noi possiamo vincere la nostra dipendenza».