La frontiera più avanzata per i trapianti e la terapia dei tumori è in Veneto. Una équipe di visionari pronta a tutto pur di dare strumenti alla medicina. “L’unico limite? Sono i fondi per la ricerca” (foto di Matteo de Mayda per L’Espresso)

Batte. Si muove. Pulsa, nonostante sia fuori da un corpo. Si muove ipnotico con dei tubi intorno. È la vita nella scienza o la vita che verrà, anche se è difficile capire quale sia l’una o l’altra. È un cuore di maiale che, invece di finire nella cella frigorifera di un macellaio, pronto alla vendita per chissà quale intruglio, è approdato in un laboratorio futuristico. Il nome del laboratorio è Lifelab, è in Veneto, a Padova. Nessuno può entrare se non con un cartellino magnetico.

Il cuore batte. Intorno a lui ci sono gli esploratori della vita umana. Lo osservano, ne prendono i dati. Non hanno tute bianche ma solo mascherine che nascondono il volto, sono uomini e donne che a parlarci un secondo sembrano pazzi. Vogliono mettere a punto una tecnica che permetta di utilizzare per un trapianto anche il cuore dei donatori a cuore fermo, testando le soluzioni possibili su un cuore di maiale. Basta questo per capire che il confine tra visionario e folle è sottile ma comprensibile. Qui vogliono reinventare la medicina rigenerando organi vecchi con cellule staminali oppure usando quelli di animali da mettere nell’uomo. Vogliono arrivare a stampare persino un rene in 4D.

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Il folle cerca l’impossibile, il visionario ottiene il possibile da quello che tutti credono che sia irraggiungibile. E allora dal cuore di maiale passi al cancro svuotato e tramutato in un semplice involucro per riempirlo con cellule che guidino al farmaco giusto. C’è la stampa 4D di un tessuto umano, persino quella di un organo. C’è un luogo asettico con i muri bianchi che sembra una torre di Babele della scienza perché tutti parlano la loro lingua scientifica ma si capiscono nonostante tutto. Ingegneri che dialogano con cardiochirurghi, ricercatori in microbiologia al fianco di chi studia il cancro.

Il professore Gino Gerosa, cardiochirurgo e mente del Lifelab dell’università di Padova, non è giovane, anzi ha dei canali rugosi sul volto che hanno trattenuto il sudore di centinaia di interventi fatti a cuore aperto. Un meccanico delle pulsazioni. E infatti la prima cosa che fa è elencare il successo come una preghiera di rassicurazione: «Siamo 21 gruppi che collaborano tra loro per 22 progetti. Per 21 gruppi s’intende provenienti da diversi dipartimenti dell’università». Poi guarda un altro cuore di maiale e urla scherzando: «Si può fare».

«Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte», aggiunge Gerosa citando Edgar Allan Poe. Il cuore a cui prima urla e poi sussurra è de-cellularizzato. È di un bianco candido e mortifero in attesa che la linfa che lo renderà rosso arrivi. Un linfa di sangue, cellule e scienza. Ma non è il semplice processo di colorazione dal bianco al rosso a renderlo incomprensibile o il «banale farlo pulsare» su un tavolo di acciaio. Ciò che lo rende futuristico è sapere che a farlo vivere saranno le cellule di chi lo ospiterà per fare in modo che il ricevente non lo rifiuti. E lì ripeti sempre la stessa frase: «Un cuore di maiale in un corpo umano con cellule di umano, ma perché?».

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Il professore Gerosa neanche ride di fronte all’incomprensione o alle domande più assurde, guarda i collaboratori, gli occhi si stringono e snocciola: «I donatori di organi sono tanti in Italia. Siamo i terzi o i secondi in Europa, ma sono donatori sempre più vecchi e non bastano. Noi inorridiamo di fronte a centotrentamila morti per Covid-19, sono tanti perché sono vite, ma non capiamo che, ogni anno per scompenso cardiaco smettono di esserci centocinquantamila persone. La chiami pandemia silenziosa, se vuole».

I muri rimangono bianchi mentre in uno strano macchinario fatto di vortici rotatori velocissimi ci sono dei tessuti immersi in una soluzione. A guardarli viene la nausea e non perché girino, ma perché capisci che sono pezzetti di tumore. «Questi sono tessuti tumorali, o meglio sono ciò che rimane di una parte di tumore asportato da un paziente al quale tramite un processo di decellularizzazione sono state eliminate tutte le cellule (normali e tumorali) lasciando solo la struttura (impalcatura) tridimensionale del tessuto stesso», spiega Marco Agostini, ricercatore e membro del board scientifico, esperto in oncologia.

«Questa struttura servirà in seguito come modello per replicare e clonare più volte il tumore in tridimensionale e testare l’efficacia della terapia a cui il paziente verrà sottoposto oltre a testare altri farmaci innovativi: un passo in avanti verso lo studio della terapia personalizzata e modulata ad hoc. Un modello sperimentale di laboratorio, quindi, che mima le caratteristiche peculiari del tumore del paziente e che si avvicina molto a come lo stesso si comporta nel corpo della persona», prosegue Agostini.

«Questo ci permetterà di individuare la terapia più efficace per il paziente, diminuendo di molto gli effetti di tossicità e massimizzandone i risvolti positivi», conclude.


Tradotto: rendere la chemioterapia meno invasiva. Evitare che il veleno che uccide il cancro ti accompagni per mesi. Una ragazza lavora di fronte a una stampante. Ha 24 anni. Qui ci sono oltre cento ricercatrici e ricercatori, la maggior parte donne, tutti giovani, alcuni giovanissimi. «Io fornisco al computer tutte le informazioni di cui ho bisogno per creare quello che mi serve e lui manda in stampa ciò che io comando».

Fin qui appare semplice, lineare. Qualcosa che saprebbe fare anche un neofita dell’informatica, se non fosse che l’idea è quella di arrivare a stampare degli organi o dei tessuti da impiantare. La prima domanda è: «Ma quale inchiostro usate, perché non è come stampare una sedia?». Sorride: «Usiamo inchiostro biologico, un tipo di inchiostro studiato appositamente per questo che può essere mischiato alle cellule».

Ma se Israele ha già stampato in 4D dei piccoli cuori, al Lifelab si cerca anche di capire come rigenerare gli organi compromessi che arrivano dai donatori. La cardiochirurga Assunta Fabrozzo, project coordinator, tenta una spiegazione semplice: «Ha presente quando si ricondiziona uno smartphone? In pratica si tiene la struttura del telefono e dentro lo si fa tornare come prima. Noi facciamo la stessa cosa, svuotiamo l’organo delle vecchie cellule e lo ripopoliamo per renderlo più giovane e pronto da impiantare». Il processo può essere fatto anche a organi appartenuti a persona sopra i 65 anni. Una soluzione ponte in attesa che arrivi quello giusto a salvarti la vita.

La sala delle cellule è chiusa, invalicabile senza un camice. Serve per mantenere la sterilità della minuscola saletta. Per girarsi si deve fare un tetris con se stessi. C’è un frigo dove si trova il terreno per far crescere le cellule, sono provette con dentro liquido rosso. Prendono le cellule, le mettono sotto la lente del telescopio. Sono staminali. «Quelle che galleggiano sono morte. Le altre sono preziose», spiega Annamaria, ricercatrice. Tutti sanno che la sperimentazione con le cellule embrionali in Italia è vietata. «In realtà dal 2004 abbiamo scoperto come prendere quelle adulte e farle tornare giovani, anche perché possiamo dire che le staminali sono un po’ l’ingrediente segreto qui dentro».

La scienza va avanti, è da anni che lo fa, ma niente trenta anni fa avrebbe mai suggerito nulla di simile. Il dottore Agostini guarda un ricercatore intento a spiegare un polimero, lo paragona a dei lunghi spaghetti che se tagliati e messi vicini si ripetono all’infinito. Annuisce compiaciuto dal paragone: «Io ho 45 anni e se devo dirla tutta quando ho iniziato non pensavo saremmo mai arrivati a questi livelli. Mai, neanche nei miei sogni».

Se c’è chi non lo avrebbe mai ipotizzato, c’è chi, fuori da queste mura asettiche con i camici appesi sulle stampelle, non ha idea della moltitudine di ricerche che la scienza sta portando avanti. Non lo sa soprattutto chi vive in Italia, dove la ricerca, non solo è poco finanziata dal governo italiano, ma è anche lasciata ai margini. Un progresso che non ha racconto.

Il professore Gerosa cerca un pacchetto di cracker in maniera convulsa per il laboratorio, è appena uscito dalla sala operatoria: «Lei chiede tra quanto tutto questo sarà possibile, tra quanto riusciremo a impiantare un organo di maiale in un essere umano, ma io questa risposta non ce l’ho». Si siede: «Tutto è proporzionato agli investimenti. Più soldi ho, più posso investire in persone e materiali. Lei riuscirebbe a costruire un palazzo in dieci giorni con tre persone? Non credo, ce ne vorrebbero almeno cento. Ecco, qui funziona alla stessa maniera».

Ci pensa un attimo: «Se riuscissi ad avere cento milioni domani credo che in una manciata di anni dalla ricerca passeremmo direttamente all’impiego clinico». Lo dice divertito, ma neanche tanto. Lo dice un uomo che riesce a mantenere in vita un essere umano senza il cuore in corpo, mentre lui su un tavolo d’acciaio lo rimette a posto come un meccanico che ripara un motore. Un corpo che rimane senza un cuore anche per un’ora. «L’investimento è direttamente proporzionato alla riuscita», ripete mentre il cuore bianco e quello rosso sono l’uno accanto all’altro. Il prima e il dopo. L’oggi e il domani.