Il flop dell’Italia agli Europei rivela l’incapacità di sfornare giocatori di alto livello. Anche perché nelle giovanili conta avere famiglie che garantiscano sponsor alle società più che il talento

L’Italia del pallone produce talenti col contagocce da quasi un ventennio. E spesso per entrare nei settori giovanili è più importante il portafoglio della famiglia. «Tanto lo sanno tutti che nei settori giovanili vai avanti se la tua famiglia può pagare», racconta Filippo Cunsolo, ex baby-promessa capace di vincere uno scudetto nelle giovanili dell’Atalanta. Che previene l’obiezione. «Se non puoi pagare? Tanti auguri! A quel punto diventare un calciatore è come vincere la lotteria di Capodanno, serve molto…serve fortuna, diciamo». E dopo la tragicomica eliminazione della nostra nazionale agli Europei, queste parole hanno ancora più senso. «Pensavo di essere su scherzi a parte», ha chiosato il presidente del Coni, Giovanni Malagò. Parole testuali. E se il numero uno dello sport tricolore non ha usato vie tangenziali per etichettare la prova della nazionale, la questione è più intricata di quel che si creda. Ma questa non è una novità e ce lo diciamo da molto, molto tempo: il nostro calcio da quasi un ventennio non produce più alcun giocatore di altissimo livello, a parte rarissime eccezioni. Il Paese di Rivera, Baggio, Del Piero, Totti e di una lista infinita di fuoriclasse ha il serbatoio del talento in riserva sparata. O forse, non è in grado di raccogliere e lanciare ciò che madre natura ci regala da sempre. Gli italiani non hanno disimparato a giocare a pallone e madre natura può star tranquilla. Basti pensare che, dopo la vittoria mondiale del 2006, l’Italia non ha più disputato un solo, misero turno a eliminazione diretta nella competizione più iconica del pianeta: eliminata in malo modo in Sudafrica nel 2010 e in Brasile nel 2014, addirittura esclusa dalla fase finale nelle ultime due edizioni in Russia e Qatar. Il che significa che, se hai meno di venticinque anni, difficilmente ricorderai di aver mai visto l’Italia nelle partite che riempiono l’album dei ricordi di molti (ex) bambini. Allarme rosso.

 

D’altronde, che il sistema di approvvigionamento abbia qualche falla è palese. Come, dall’altro lato, è vero che le nostre nazionali giovanili raccolgono risultati. Siamo campioni d’Europa con l’Under 17 e con l’Under 19 e vicecampioni mondiali coi ventenni. Ma un conto è raccogliere risultati in alcune partite, magari risolte da episodi, furbizie e applicazione tattica. Tutt’altra faccenda è accompagnare i ragazzi a essere professionisti di altissimo profilo internazionale. Insomma, l’obiettivo di settori e nazionali giovanili non dovrebbe essere strettamente quello di vincere competizioni – che schifo non fa, ovvio – ma in primis quello di plasmare futuri grandi giocatori. E qui serve aprire gli occhi sui nostri vivai, che non funzionano perché non producono. A scanso di equivoci, non è l’annoso discorso, che salta fuori ciclicamente, dei tanti stranieri che giocano nei campionati: in ogni nazione europea il massimo torneo nazionale è popolato da giocatori di altra provenienza. Semmai, tra le tante cause della pochezza prodotta dai nostri settori giovanili c’è un elefante nella stanza. La domanda scomoda suona così: e se il calcio di casa nostra non fosse così meritocratico? Se la possibilità di accedere alle scuole calcio più prestigiose fosse fatalmente influenzata dalla capacità economica delle famiglie di “sponsorizzare” la carriera dei ragazzi?

 

La nazionale italiana dopo l’eliminazione dagli Europei 2024, in seguito alla partita con la Svizzera a Berlino, il 29 giugno scorso

 

«La chiamano sponsorizzazione», spiega sempre Filippo. Si chiama Filippo Cunsolo e, no, non voleva fare l’astronauta. Voleva soltanto diventare un calciatore di serie A e da ragazzino era bravissimo. «La sponsorizzazione sono soldi che la tua famiglia dà in nero a un dirigente o direttamente come sponsor dell’azienda del papà alla società per farti prendere». Mentre racconta tutto questo, nei suoi occhi c’è la disillusione amara che accompagna i sogni infranti. Per lui il calcio è materia archiviata e i ricordi sono nel proverbiale scatolone polveroso in soffitta. «Eravamo ragazzi e un mio coetaneo, uno poi arrivato in serie A, mi disse che le nostre carriere erano come ristoranti: per mandarle avanti servivano soldi, investimenti». Filippo si sbottona, è uno di quei pochi che non hanno mai avuto paura di denunciare un sistema ancora parzialmente sommerso e a dimostrarlo attraverso le telecamere nascoste in un paio di clamorose inchieste. L’obiezione è legata al fatto che possano essere solo dicerie e malelingue. La vecchia storia della volpe che non arriva all’uva e dice che non è buona. Peccato che, all’interno di un sistema omertoso e che esclude chi non sta alle regole sotterranee, esistano anche sentenze e squalifiche. Basta spulciare nelle carte degli organi di giustizia della Federazione e si trova notizia di alcuni dirigenti squalificati per aver proposto tesseramenti in cambio di soldi. Poca roba rispetto alle probabili dimensioni del fenomeno. L’obiettivo di ogni ragazzo e ogni famiglia è farcela, inseguire il sogno di diventare un calciatore di serie A. Denunciare equivale a scavarsi la fossa.

 

Il calcio, soprattutto quello di moltissimi settori giovanili, è quanto di meno meritocratico ci sia. Un luogo in cui, se la tua famiglia può foraggiare dirigenti, procuratori, intermediari, vieni preso in considerazione. Sennò, niet. «Perché dovrei farti diventare famoso e ricco senza guadagnarci nulla?», si chiedono cinicamente alcuni padroni del vapore. Un mondo avvelenato da mele marce che, però, possiede all’interno procuratori, dirigenti e società virtuose. «Bisogna ammettere che rispetto al passato i ragazzi giocano meno a calcio e più alla PlayStation», racconta Jean-Christophe Cataliotti, procuratore di tanti piccoli campioni al massimo livello dei settori giovanili e promotore di una visione etica nella gestione del mondo del calcio. «Va detto, però, che si presentano alle famiglie tanti loschi figuri che non sono veri agenti e che promettono mari e monti in cambio di soldi», spiega. «Le malelingue esistono, ma è evidente che tanti ragazzi hanno opportunità perché il papà imprenditore è sponsor della società. Basterebbe una norma che impedisca alle famiglie di investire nelle società in cui giocano i figli per spezzare una parte del meccanismo».

 

Perlomeno quella alla luce del sole, perché poi c’è tutta la parte sommersa che non è diversa da una vera e propria tangente. Ma i problemi non finiscono qua e tante volte le regole non aiutano il funzionamento della macchina. «Un sedicenne che arriva dall’estero dev’essere messo sotto contratto per legge, a differenza di un sedicenne italiano», continua il procuratore. «E così ovviamente una società si trova nelle condizioni di dover far giocare lo straniero per giustificare l’esborso economico: una follia regolamentare». Un altro esempio virtuoso è il Sassuolo. La società emiliana ha sempre scelto una strada molto diversa rispetto a quasi tutte le altre. L’attenzione meticolosa al settore giovanile è valsa ai neroverdi lo scudetto Primavera in questa stagione e tre Tornei di Viareggio negli ultimi anni. Ma, al di là dei risultati, per quel che più conta, il Sassuolo è riuscito nell’obiettivo pregiato di lanciare tantissimi giocatori a livello internazionale. «Difficile credere che un Paese come il nostro non riesca a far emergere giovani talenti», spiega l’amministratore delegato del Sassuolo, Giovanni Carnevali. «Tutti devono avere le stesse possibilità. Abbiamo progetti societari che puntano a questo, ma ci aspettiamo un aiuto da parte della classe dirigente e politica affinché la crescita del ragazzo non sia fine a sé stessa. I risultati richiedono tempo, servono programmazione e dedizione, ci vuole pazienza, senza voler raggiungere l’obiettivo subito e a tutti i costi. I giovani vanno aspettati e va data loro la possibilità di sbagliare». Parole sacrosante, ma che purtroppo stridono con l’amara realtà. E coi risultati di una nazionale che una volta si permetteva il lusso di lasciare a casa Roberto Baggio e ora si trova a dover naturalizzare giocatori ben più modesti dall’altra parte del mondo.