Arabopolis
"Abu Avrahàm": l'avventurosa genesi di un libro ispirato a un'incredibile storia vera
Un equipaggio poco raccomandabile. La più importante azienda vinicola dell'impero Ottomano. E il primario palestinese di un ospedale del Norditalia. Manuel Bonomo Morzenti racconta il piccaresco "making of" del suo romanzo
Che "Abu Avrahàm" (Enrico Damiani Editore) sia un bel libro chi segue Arabopolis già lo sa: l’ho segnalato in giugno, in un articolo sulle letture arabofile per la borsa da spiaggia. Poi però sono andata alla presentazione che ne ha fatto alla libreria Griot, qui a Roma, Simone Sibilio, dell'Università di Venezia. E ho scoperto, oltre a un bravo studioso che conoscevo solo di fama, uno scrittore brillante, che anche dal vivo è un affabulatore irresistibile, e ha raccontato con brio e passione la genesi del suo romanzo. Una storia che di per sé merita un articolo, ricostruito a memoria.
Diciamo subito che la stesura di "Abu Avrahàm" ha richiesto otto anni, e che il libro era già finito prima del 7 ottobre dell'anno scorso: e anche se le ultime fasi della lavorazione sono state rallentate, e il libro è uscito a maggio, del pogrom di Hamas e del massacro israeliano non c'è traccia. La storia raccontata da Bonomo Morzenti però inizia vent'anni fa, nel 2003 quando l'autore, che ha un curriculum che intreccia giornalismo, insegnamento e lavoro per una cooperativa vinicola, va per la prima volta in Israele e Palestina.
Ed è proprio il lavoro con la cooperativa vinicola a spingerlo al viaggio. Deve andare ad accogliere al suo arrivo una barca a vela gestita da un’associazione benefica che è sponsorizzata dalla azienda vinicola di suo padre. A bordo della barca c'è un gruppo di non vedenti, assistiti da un gruppo di «persone che potremmo definire ex tossicodipendenti, ma non erano ancora proprio ex», e un comandante «che ci vedeva e non si drogava ma aveva grossi problemi con la bottiglia».
In 40 giorni la barca arriva dall’Isola d’Elba a Tel Aviv, dove «vengono accolti calorosamente dai servizi segreti»: bisogna anche capirli, si era in piena intifada. Tappa seguente Betlemme, sede della Cantina Cremisan, una azienda vinicola leggendaria che il padre dello scrittore distribuisce in Italia: «Prima della nascita dello stato d’Israele riforniva di vino tutto il Medio oriente, dalla Siria alla Giordania all’Egitto: un milione di bottiglie l’anno. Poi con la Nakba è cambiato tutto, e durante l’intifada la crisi era enorme: mancavano lieviti, etichette, tappi…»
A far da guida all’eterogeneo gruppo è una giovane studiosa, Vera Baboun, che qualche anno dopo diventa sindaca di Betlemme. È in questa veste va a Brescia, città gemellata con Betlemme, e incontra di nuovo Bonomo Morzenti che la presenta in un incontro pubblico. «Passa qualche anno e una sera, in uno dei ristoranti palestinesi ai quali fornivamo il vino, trovo un uomo elegante semisbronzo, attaccato a una bottiglia. Mi dice “Non bevo mai così, ma ieri mi è successa una cosa che mi ha convinto che la storia della mia famiglia la devo raccontare, e la voglio raccontare a te». «E perché proprio a me?» «Perché tu conosci e ami la Palestina, ti ho visto quando presentavi la sindaca».
Chi parla – lo chiameremo Sami, come il personaggio del libro – è un professionista affermato, nato in Palestina ma emigrato in Italia dal molto tempo, «prima con le borse di studio dell’Olp per studiare all’università». Quella che racconta a Bonomo è la storia incredibile di suo nonno, quella che leggiamo nel libro: un giovane palestinese, Yussuf, che all'inizio del Novecento scappa di casa, trova rifugio nel quesrtiere ebraico di Gerusalemme, sposa la figlia del suo datore di lavoro e mette al mondo sette figli. Il primo lo chiama Avrahàm – un nome usato anche in arabo nella versione Ibrahim.
Poi arriva lo stato d’Israele, la diffidenza tra ebrei e musulmani, la guerra, il caos. Anche il matrimonio entra in crisi: Yussuf abbandona moglie e figli, torna al suo villaggio, si sposa di nuovo, ha altri sette figli e il primo lo chiama Ibrahim: però, secondo l'uso arabo di chiamare un uomo Abu, cioè padre, del suo primo figlio, continua a essere chiamato Abu Avraham: resta per sempre il padre di quel figlio ebreo che aveva abbandonato. «E questo abbandono pesa sulla sua immagine per tutta la sua vita, e anche dopo morto».
Questo si legge nel romanzo. Ma ci sono voluti anni prima che il racconto di Sami diventasse libro. Tante stesure diverse: «La prima era la trascrizione di registrazione e appunti, ma Sami mi ha detto: ma questo sono io, non è quello che voglio, la storia la devi scrivere tu». Poi Bonomo cerca di passare alla seconda persona: «Una faticaccia, e un risultato pessimo. Allora Sami mi mette in contatto con uno studioso egiziano di letteratura araba che lo stronca molto gentilmente, e mi dà consigli preziosi».
Alla terza riscrittura, Sami finalmente lo accetta: «Ho pianto», dice allo scrittore. C'è ancora da lavorare, ovviamente: soprattutto trovare un editore: «Mi rispondevano dopo un'ora dicendo "bello ma non ci interessa", e io mi dicevo: ma come hanno fatto a leggerlo in un’ora?». Poi trova questo editore di Brescia, una piccola casa editrice fondata da Enrico Damiani e gestita, dopo la sua morte, dalla moglie medico; un editing accuratissimo «con Alessandra e Giulia» - «È l’unico libro recente in cui non ho notato neanche un errore di stampa», commenta Sibilio.
E ancora tanti aneddoti sulla lavorazione, che ha coinvolto diversi parenti. Le fotografie - «i due rami della famiglia si somigliano in modo impressionante» -, la scena iniziale, nel 1993, all'aeroporto - «È vera: me l'hanno raccontata in tanti». La cosa più esilarante è il romanzo mancato: «Sami aveva raccontato la storia a un grande editore che era entusiasta, voleva farne un bestseller pieno di pathos e di sesso. Lui prima ha detto sì, poi ha pensato: ma io già guadagno tanto, che ci faccio cona altri soldi? Perché davo accettare che la storia della mia famiglia debba diventare un libro così? E si è tenuto la storia». Anche se, leggendo delle continue conquiste di Abu Avrahàm al ritorno nel suo villaggio si immagina dove il grande editore volesse inserire gli excursus piccanti...
E la madre del protagonista, che all'inizio del racconto nega ogni possibilità di ricordo e di perdono («Figlio, il mio cuore è chiuso, e c'è una pietra sopra questa ferita») è ancora arrabbiata? «Arrabbiatissima: lei non ha mai voluto che questa storia venisse raccontata». Per questo i luoghi non vengono descritti, e i nomi di tutti i protagonisti sono stati cambiati, alla fine: un cambiamento così repentino che l'autore stesso non si ricorda più di chi si sta parlando.
E la parte ebrea della famiglia come ha preso l’idea del libro? «Non ne sanno nulla, non si parlano più ds tempo. I rapporti erano ripresi negli anni degli accordi di Oslo, ma finita l’illusione della pace anche l’apertura tra i due rami della famiglia è naufragata».