Considerato a prova di brogli, il sistema elettorale di Caracas è andato in tilt e l’uscente si è garantito il terzo mandato. Una fonte dell’opposizione racconta come ha fatto. E rivela: con noi anche i chavisti

«Tutto il Venezuela sa chi ha vinto le elezioni del 28 luglio scorso. Non lo dice solo l’opposizione. Lo dicono i documenti ufficiali, le carte depositate nei seggi, le schede raccolte e stampate nelle urne, i registri e i verbali sottoscritti dagli scrutatori e controfirmati dai rappresentanti di lista. Oggi sono pubblici. Chiunque li può consultare sul web e farsi un’idea precisa. Io c’ero quel giorno. Ero all’interno di un ufficio elettorale. Coordinavo il lavoro dei testimoni che dalla sera prima erano stati spediti sui posti. È stato grazie a loro e all’aiuto fondamentale di molti scrutatori indicati dal governo, quindi di chiara fede chavista, se la frode smaccata, quasi arrogante, è stata scoperta e denunciata. Di questo siamo fieri. Perché la nostra è una battaglia per la verità».

 

L’uomo che chiamiamo a Caracas via whatsapp ci chiede di restare anonimo. Anche lui si nasconde. Come lo staff e i vertici dell’opposizione, il candidato alla presidenza Edmundo González Urrutia e la leader del movimento che lo sostiene María Corina Machado. Tutti sono costretti a cambiare casa in continuazione. Il nostro contatto non si fida del suo telefono. Evita di portarlo appresso. La polizia e le squadre dell’intelligence, che adesso girano in tutto il Paese in una caccia ossessiva ai “golpisti”, possono sequestrarlo per copiare i numeri delle chiamate fatte e ricevute.

 

È un testimone diretto. Rivendica le sue idee di sinistra, portate avanti sin dalle proteste oceaniche del 2017 e del 2019, con centinaia di morti e feriti e migliaia di arresti da parte della durissima repressione. Ammette la delusione per il fallimento di un progetto in cui credeva. Può spiegare cosa è accaduto nel weekend che segnerà probabilmente il destino del Paese sudamericano: un destino ancora appeso a un filo sottilissimo, in bilico tra un ulteriore giro di vite che metta al riparo un regime in affanno e il rischio di una guerra civile minacciata solo poche settimane prima del voto dal due volte presidente Nicolás Maduro.

 

Per capire cosa sta accadendo nel Paese che più di altri rappresenta un tassello fondamentale nel nuovo assetto geopolitico mondiale, bisogna fare un passo indietro. Tornare a domenica 28 luglio. Si vota per il rinnovo della presidenza. La data scelta da chi comanda da 12 anni non è casuale: un omaggio al compleanno del padre della rivoluzione del XXI Secolo Hugo Chávez, morto di cancro nel 2013, che oggi avrebbe compiuto 70 anni. Una data simbolica come tutto è simbolico nel Venezuela ispirato al grande libertador Simón Bolivar.

 

Gli oppositori del governo del presidente venezuelano Nicolas Maduro in piazza a Caracas il 29 luglio

 

C’è entusiasmo e fervente attesa. I 23 milioni di venezuelani, sette dei quali fuggiti all’estero nella più vasta diaspora in tempi moderni, si sentono di nuovo padroni del loro futuro. Potranno depositare in un’urna la scheda che indicherà il nome di chi dovrà governarli nei prossimi sei anni. Un esercizio di democrazia che galvanizza un popolo narcotizzato dall’indifferenza e assente nelle decisioni che lo riguardano. Il sistema elettorale creato da Chávez è tra i più avanzati al mondo. È stato testato più volte e riconosciuto per la sua attendibilità dalla maggioranza di istituti e organizzazioni internazionali. Perfino il Centro Carter, la fondazione non governativa legata all’ex presidente Usa esperta in consultazioni popolari apprezzato anche dal governo di Caracas, certifica la sua imparzialità. Impossibile raggirarlo con frodi. È blindato da tre codici, tra cui uno Q, che impediscono l’alterazione dei numeri e la modifica delle schede.

 

Si vota per via elettronica pigiando sullo schermo di un’urna il simbolo o il nome indicati. I dati raccolti sono poi spediti su un canale indipendente nel cervellone del Consiglio nazionale elettorale, a cui la legge affida la regia di tutta l’elezione. I vari uffici elettorali stampano anche una copia cartacea del voto espresso che servirà da prova in caso di contestazioni e ricorsi. Il conteggio è riassunto su un verbale a sua volta riportato su un registro, entrambi firmati da tutti i presenti, che ogni seggio trasmetterà al Cne dove verranno custoditi. Semplice e affidabile.

 

Un sostenitore mostra un dipinto di Nicolas Maduro, presidente del Venezuela

 

Le operazioni di voto si chiudono alle 18 della stessa domenica. «C’era un ritardo – racconta il nostro testimone – perché si capiva l’orientamento dell’elettorato. Il governo era allarmato e aveva invitato la gente ad accorrere ai seggi per recuperare lo scarto nei consensi. Gli scrutatori ufficiali, scelti da un computer, ma nella maggioranza sostenitori del regime, avevano avuto pressioni in questo senso. Si doveva attendere per consentire a chi si era astenuto di andare a votare».

 

Il ritardo si prolunga perché il collegamento satellitare inizia a fare le bizze. Ci sono difficoltà nell’invio dei dati dalla periferia alla sede centrale. Maduro, il giorno dopo, denuncerà un attacco informatico. Il “grande hack”, a suo parere, messo a punto da un piano golpista partito da un Paese straniero che il Procuratore generale Tarek William Saab, fedelissimo del presidente, indicava nella Macedonia del Nord. Un’accusa subito negata con sdegno dal piccolo Stato dei Balcani. L’attacco viene respinto e poco dopo mezzanotte, con metà delle schede contate, il presidente del Consiglio nazionale elettorale Elvis Amoroso, altro fedelissimo e amico personale del leader chavista, annuncia la vittoria di Nicolás Maduro. Per la terza volta è stato eletto con il 51,95 per cento dei voti. Il suo avversario Edmundo González Urrutia, candidato dell’opposizione, raccolta nella Piattaforma Unitaria, si è fermato al 43,18. Oltre 8 punti di differenza. Un risultato clamoroso. Le urne smentiscono tutti i sondaggi che davano all’ex diplomatico di 74 anni una netta vittoria, con un distacco tra i 20 e i 30 punti, sul suo rivale di 62. Amoroso indica solo questi numeri. Giustifica il ritardo nell’annuncio, in passato sempre avvenuto un’ora dopo la fine dello spoglio, con la storia del blackout informatico. Assicura che nel giro di pochi giorni saranno resi noti tutti i dati nel dettaglio, seggio per seggio, provincia per provincia. Non lo farà. Ancora adesso, mentre scriviamo, otto giorni dopo le elezioni, l’organismo ufficiale chiamato a decidere chi ha vinto e chi ha perso non ha mostrato la fotografia del Paese che mezzo mondo gli chiede.

 

«Hanno difficoltà a farlo semplicemente perché non possono», spiega il nostro interlocutore mentre la linea telefonica è interrotta da continue scariche che rendono difficile la comunicazione. «Sono in possesso di tutti i dati anche disaggregati seggio per seggio ma sanno che dimostrano quello che l’opposizione sostiene: la vittoria schiacciante di González».

 

Chi offre il quadro quasi completo dei risultati, all’81 per cento dei voti, pari a 24.532 schede sul totale di 30.026, è l’opposizione. Dichiara che il suo candidato ha vinto con il 67 per cento dei consensi e Maduro ha raccolto il 30. Pubblica tutto il materiale nel dettaglio su un sito dove si aprono, stato per stato, seggio per seggio, le percentuali di partecipazione e i relativi risultati. «E’ stata questa la mossa vincente della Piattaforma Unitaria», dice la fonte di Caracas: «Ha spiazzato gli avversari che in forte difficoltà si sono affrettati ad annunciare una vittoria che sapevano essere falsa. Maduro si è proclamato presidente per la terza volta consecutiva e lo ha detto con un tono di sfida al mondo intero. Quando la gente si è ribellata, è scesa in piazza, ha cominciato a battere i mestoli sulle pentole nei classici cacerolazos, ha rifiutato un risultato che appariva assurdo, una frode sfrontata, allora il regime ha cambiato narrativa. Ha iniziato a parlare di trama golpista, di forze oscure che tentavano di aggredire la rivoluzione bolivariana, ha chiamato a raccolta la sua base per respingere l’assalto».

 

Ci sono stati violenti scontri con la polizia e i corpi speciali. In quattro giorni di sommossa, tra saccheggi, auto date alle fiamme, palazzi assaltati, sono morte almeno 24 persone, la maggior parte minorenni e un funzionario delle Fab, le Forze armate bolivariane. Una cinquantina i feriti, quasi mille gli arrestati che sono saliti a 2.229 il 7 agosto scorso. «È chiaro che in mezzo alle proteste c’erano anche i giovani e giovanissimi che avevano voglia solo di fare casino», ammette il nostro interlocutore: «Stavano vivendo il loro momento, quando era toccato a noi scendere in piazza erano appena nati. Ma ho visto con i miei occhi qualcosa che accadeva per la prima volta. Moltissimi chavisti, gente legata al Comandante e critica con Maduro, si sono uniti alle manifestazioni. Nelle città e Stati dove il regime ha sempre dominato, considerati suoi feudi storici, tutto il popolo partecipava alla protesta. Proprio in questi centri sono state abbattute le cinque statue del padre della Rivoluzione come segno di rifiuto e delusione. Maduro veniva contestato perché aveva tradito, con il suo atteggiamento e le sue scelte, i valori di chi lo aveva nominato suo successore».

 

Persino i soldati, la truppa, si sono limitati a vigilare senza intervenire. «Spesso – aggiunge chi ci parla – sono stati loro a consegnarci il materiale degli uffici elettorali che i funzionari governativi negavano, sebbene lo preveda la legge. Ci avevano avvertito di venire presto ai seggi perché sapevano che gli scrutatori sorteggiati e i rappresentanti della lista governativa sarebbero arrivati prima dell’apertura. Chi coordinavo è andato la notte di venerdì, si è piazzato davanti alle scuole e gli uffici destinati alla votazione. È stata una sorpresa per gli altri che pensavano di essere soli».

 

La leader dell’opposizione Maria Corina Machado e il candidato presidente Edmundo Gonzalez Urrutia

 

Il clima si è fatto pesante. Per tutto il giorno ci sono state continue difficoltà e contrasti tra i “testimoni” dell’opposizione, organizzati in comanditos e quelli del partito di maggioranza. Alla fine, non tutti i presidenti di seggio hanno voluto consegnare il materiale cartaceo che la Piattaforma Unitaria aveva dato ordine di recuperare, anche solo fotografare, in vista di una verifica che si è poi resa necessaria. «Sono stati alcuni funzionari del governo e spesso anche i soldati a fornire le prove cartacee», conferma la fonte: «Erano a disagio, sapevano che l’opposizione aveva diritto a quel materiale. Era un modo di rispettare la volontà popolare. Le prove cartacee avrebbero difeso il voto».

 

Il governo mette al bando Whatsapp, responsabile delle «comunicazioni tra i golpisti», fa incriminare per istigazione alla rivolta i suoi avversari, fa ricorso al Tribunale superiore di giustizia, da lui controllato, perché esprima un verdetto sul risultato, toglie i soldati dalle strade e sguinzaglia i colectivos, le squadracce paramilitari della gioventù chavista, riapparse sulla scena per la prima volta dopo tanto tempo. Saranno loro a fare il lavoro sporco, a sparare, anche ad eliminare, con un colpo alla nuca o al petto, i ragazzini delle barricate, come denunciano le associazioni a difesa dei diritti civili. Maduro non si fida più della truppa delle sue forze armate. «Anche loro – spiega la fonte da Caracas – hanno una famiglia, un salario basso, meno privilegi dei vertici. Vedono la realtà. Sento crescere una divisione all’interno dell’esercito: i soldati, sebbene in silenzio, chiedono un cambio».

 

Lo chiede l’opposizione che dopo un veloce raduno in piazza dove appare solo Maria Corina Machado al grido “Non abbiamo paura”, torna a sparire nella clandestinità. Edmundo Gutiérrez lancia su X appelli all’esercito e lo invita a evitare spargimenti di sangue, a difendere la Costituzione e il voto. La pasionaria nera chiede pazienza e unità. «Non dobbiamo disperdere – dice – questo meraviglioso ed enorme movimento di libertà, dobbiamo continuare a vigilare uniti e in pace, senza violenza». Cina, Russia, Iran e Nord Corea restano i soli a riconoscere la vittoria di Maduro. Gli altri, compresa la maggioranza dei Paesi dell’Ue, Italia in testa, insistono per un nuovo conteggio, carte in mano. La sinistra sudamericana chiede invece una trattativa. Brasile, Colombia e Messico decidono di premere sul leader chavista per convincerlo a sedersi a un tavolo con l’opposizione e a evitare il peggio. Perfino il Partito Comunista del Venezuela, sebbene in rotta con l’attuale regime dal 2022, condanna la repressione e accusa il due volte presidente di “dittatura”. Ma Maduro insiste. È sorretto dall’apparato governativo e dal gruppo di fedelissimi che gli dicono di non mollare.

 

Il silenzio avvolge adesso il Venezuela in una cappa oscura di incertezza e di paura. Il governo non vuole perdere i privilegi e le garanzie che si è costruito in 25 anni. Teme i processi e anche gli arresti. Non resta che la trattativa per garantire chi ha perso e tutelare chi ha vinto. A patto di verificarlo. Basterebbe confrontare le prove cartacee. «Siamo sul ciglio di un vulcano –commenta il nostro contatto – Ho paura che la crisi scivoli verso una guerra civile. Girano tante armi nel Paese. Basta poco per iniziare a sparare. Sono combattuto tra due scelte: restare e continuare a battermi per il Venezuela oppure partire come si apprestano a fare altre decine di migliaia di persone».