La vicepresidente Usa porta avanti il testimone della diversità e dei diritti. È riuscita a unire i democratici, ridando loro speranza. Ma la sfida per lei, ora, è ricucire un Paese frammentato. L'editoriale de L'Espresso in edicola da oggi che dedica la copertina alla candidata

Col titolo “Effetto Kamala” dedichiamo la copertina del numero 34 de L'Espresso alla vicepresidente degli Stati Uniti che quattro anni fa ha rotto il soffitto di cristallo diventando la prima donna, la prima persona afroamericana e la prima persona di origine asiatica a ricoprire tale incarico. Ora si trova di fronte a una sfida ancora più grande: convincere l’America a fare di lei la prima donna presidente.

 

Nata da madre indiana e padre giamaicano, è un esempio vivente del melting pot statunitense, capace di parlare a un elettorato che si sta progressivamente diversificando. La sua esperienza come procuratrice generale della California e come senatrice la dota di un bagaglio istituzionale solido, che le consente di muoversi con disinvoltura tra le complessità della politica di Washington. Inoltre è calda, affascinante, empatica e smart.

 

La sua retorica è incisiva e spesso orientata a temi di giustizia sociale e uguaglianza, capaci di risuonare soprattutto con le giovani generazioni e con chi sente l’urgenza di un cambiamento rispetto alle disuguaglianze radicate nella società americana. La sua presenza nella campagna elettorale, poi, potrebbe galvanizzare l’elettorato femminile, che rappresenta un segmento chiave di queste elezioni. Il suo merito più grande, come ci conferma il guru del successo di Obama, Alec Ross, è stato quello di riuscire a unire i democratici e poi di scegliere un candidato alla vicepresidenza, come Tim Walz, che «rappresenta la classe operaia della Middle America in contrasto con le élite delle coste che Harris rappresenta».

 

Infine con Kamala Harris potrebbe cambiare il modo di parlare di Israele e Gaza, se riuscisse ad ascoltare le voci che vengono dalla sinistra che vuole non solo un cessate il fuoco ma anche un embargo sulle armi americane a Israele. Ascolterà queste richieste che vengono da “Jewish voice for Peace”?

 

 

Ma l’“Effetto Kamala” non è privo di ombre. La vicepresidente ha infatti faticato a trovare uno spazio definito durante il suo mandato, spesso oscurata dalla figura di Joe Biden e percepita come marginale su molte questioni chiave. Nonostante il suo curriculum, non è riuscita a costruire un profilo autonomo sufficientemente forte e questo rischia di renderla vulnerabile agli attacchi di chi la dipingeva come una «vicepresidente invisibile». Inoltre, mentre era responsabile del dossier immigrazione, ha fatto vivere all’America i quattro anni peggiori di sempre. E su questo i repubblicani, ossessionati dai clandestini da espellere, la massacreranno.

 

Le sfide non finiscono qui: la polarizzazione estrema del panorama politico americano la pone di fronte a un compito quasi impossibile, quello di riconquistare una parte dell’elettorato bianco rurale che si è allontanato dai democratici. Inoltre, le sue posizioni intransigenti su alcuni temi – come la giustizia penale – potrebbero alienarle il supporto di elettori moderati o conservatori che vedono in lei un’estensione delle politiche progressiste che hanno segnato l’amministrazione Biden.

 

In definitiva, Kamala Harris rappresenta una scommessa per i democratici, una figura in grado di portare avanti il testimone della diversità e del progresso, ma che dovrà dimostrare di avere la stoffa per guidare un Paese frammentato e in cerca di certezze. La sua candidatura non è solo una questione di numeri o strategie elettorali, ma un banco di prova per capire se l’America è pronta a fare un ulteriore passo avanti nella sua storia di inclusione e cambiamento.