gli stupri di mazan
Un processo diventato spartiacque
Gisèle Pelicot ha voluto un rito a porte aperte per gli uomini che l’avevano violentata. Capovolgendo la vergogna. E aprendo un dibattito che sta segnando la Francia, ma non solo
Il 19 dicembre scorso, ad Avignone, nel Sud della Francia, si è concluso il processo per i cosiddetti stupri di Mazan che vedeva 51 uomini accusati di avere violentato Gisèle Pelicot (72 anni, ex moglie di Dominique Pelicot). Tutti gli imputati sono stati considerati colpevoli, con pene dai tre ai 20 anni di reclusione. A Dominique Pelicot, accusato di avere drogato la moglie per anni e di averla fatta stuprare da più di 70 uomini contattati sul sito coco.fr (ora chiuso), la pena maggiore prevista dalla giustizia francese: 15 anni più cinque di aggravanti.
All’uscita dal tribunale, tutti gli applausi sono stati per lei, Gisèle, la quale ha acconsentito a che il processo fosse celebrato a porte aperte. Circondata da nipoti e figli, ha preso la parola per la prima volta pubblicamente: «Quando ho deciso di aprire le porte di questo processo, lo scorso 2 settembre, volevo che la società fosse in grado di coglierne il significato. Non mi sono mai pentita». La scelta di Gisèle Pelicot ha effettivamente segnato la storia: processi per stupro di queste dimensioni e aperti al pubblico sono molto rari. Quasi un mese dopo la sentenza, che cosa resta del processo che ha segnato la Francia e non solo?
Come ha detto l’ex primo ministro francese, Michel Barnier, c’è un prima e c’è un dopo il caso di Mazan. La decisione di tenere il processo a porte aperte ha permesso una presa di coscienza globale sulla necessità di maggiori azioni contro la «cultura dello stupro». La presenza di centinaia di giornalisti internazionali in tribunale il giorno della sentenza ha dimostrato come l’attenzione della società si sia focalizzata, come mai prima d’ora, sul tema delle violenze di genere e delle violenze coniugali. Gisèle Pelicot è diventata un simbolo di lotta, tanto da essere inserita dal Financial Times e dalla Bbc tra le donne più influenti del 2024. La sua scelta è risuonata (e risuona ancora) in tutto il Paese, dove si sono tenute manifestazioni transfemministe in suo sostegno.
Icona della difesa dei diritti delle donne, Gisèle Pelicot ha anche il merito di avere reso pubblico un dibattito ancora poco presente in Francia: quello sul consenso. «Visto che il marito mi aveva dato il permesso, pensavo che lei fosse d’accordo», ha detto Andy R. in aula; alludeva al fatto che, avendo avuto il consenso di Dominique Pelicot per violentare la moglie, era come se avesse avuto il consenso della stessa. La sua dichiarazione assomiglia a quella di molti altri uomini che si sono nascosti dietro all’idea di un “consenso delegato”. Il dibattito è stato ripreso e ampliato dalle femministe, scese in piazza con cartelli che affermavano che il consenso è tale solo se viene dato dalla diretta interessata. Una giovane attivista, presente il 19 dicembre davanti ai cancelli del tribunale, ha portato il suo cane con sé: «Anche lui capisce quando gli dico no», ha dichiarato.
Al di là dell’indignazione, gli esperti di diritto affermano che il caso mostra la necessità di rivedere il Codice penale francese per porre il consenso al centro, come elemento cruciale, di ciò che costituisce un crimine sessuale. La nozione di consenso non è infatti attualmente inclusa nella definizione legale di stupro: l’articolo 222-23 del Codice penale si limita a definire lo stupro come un atto sessuale commesso «con violenza, coercizione, minaccia o sorpresa». Sull’onda di questi dibattiti, a novembre la Delegazione per i diritti delle donne del Senato ha organizzato un convegno sulla possibilità di introdurre il concetto di consenso nella definizione penale di stupro. Per la maggior parte degli interessati, infatti, questa nozione è presente ovunque nell’indagine, ma non nella legge. Il dibattito intorno al processo di Mazan potrebbe avere, quindi, aperto la strada a un cambiamento della legislazione francese?
La battaglia di Gisèle Pelicot è stata affiancata e sostenuta sin dal primo momento da sua figlia, Caroline Darian, che si è incaricata di diffondere la storia della madre. Darian (convinta di essere stata a sua volta abusata dal padre, dopo che foto di lei mentre dormiva sono state ritrovate nel computer dello stesso Dominique Pelicot) ha fondato l’associazione MenDorsPas, letteralmente “non addormentarmi”. L’associazione mira ad attirare l’attenzione sulla sottomissione chimica, ovvero la pratica di sedare una persona con pesanti medicinali allo scopo di abusare di lei. La lotta di madre e figlia ha già portato a dei risultati concreti.
Michel Barnier, infatti, ha presentato lo scorso 25 novembre una serie di misure introdotte dal governo contro le violenze perpetrate sulle donne. Tra le iniziative, anche la messa in vendita di “kit del giorno dopo” per effettuare le analisi necessarie a capire se si sia state vittime di sottomissione chimica. I kit, venduti in farmacia, sono semplici test da fare a casa e in molti dipartimenti francesi sono rimborsati dalla sanità pubblica: una prima volta nel Paese. La testimonianza di Caroline Darian ha anche preso di mira direttamente l’Ordine dei medici. «Mia madre ha visto dei medici generalisti, ha visto dei neurologi, dei ginecologi... e nessuno di questi esperti è stato capace di arrivare alla giusta diagnosi», ha detto al canale televisivo pubblico France 2. E l’organo che rappresenta i medici ha successivamente riconosciuto questo problema di ordine pubblico, affermando che il personale sanitario «deve essere formato per identificare i segni di sottomissione chimica, ma soprattutto deve avere gli strumenti necessari per confermarne la presenza».
Il processo per i fatti di Mazan ha avuto anche il merito di segnare un primo grande passo in avanti nel cambiamento della concezione dello stupratore. Il tribunale di Avignone ha visto i suoi banchi riempirsi non di “mostri” o di soggetti esclusi dalla società, bensì di uomini “perbene”, di mariti e padri, spesso accompagnati dalle famiglie, di persone di tutte le estrazioni sociali, di tutte le professioni ed età. E tutti erano accomunati da un solo elemento: le violenze commesse su Gisèle. Il processo Pelicot ha avuto in Francia la stessa conseguenza che ha avuto il caso di Giulia Cecchettin in Italia: portare l’opinione pubblica alla consapevolezza che non sono solo i “mostri” a compiere gli stupri, ma spesso sono uomini considerati normali e ancora più spesso (nell’80 per cento dei casi) persone vicine alla vittima.
Al grido italiano di «è stato uno dei vostri bravi ragazzi» – riferito a Filippo Turetta, condannato in primo grado proprio per il femminicidio di Cecchettin – è seguito il francese «la honte doit changer de camp» («la vergogna deve cambiare di campo»). Il processo di Mazan, aprendo le porte al pubblico, ha per la prima volta mostrato i volti di questi padri di famiglia: in 51 seduti contro una sola e unica donna, Gisèle Pelicot. Le femministe davanti al tribunale non hanno avuto dubbi e lo hanno mostrato chiedendo agli imputati di abbassare le maschere che coprivano loro il volto: non è mai la vittima che deve provare vergogna, ma lo stupratore. Non si è pentita Gisèle Pelicot, questo lo ha sottolineato anche dopo il lungo processo, prima di dedicare alcune parole alle vittime di stupro. «Portiamo avanti la stessa lotta», ha dichiarato. Nei prossimi mesi e anni si vedrà se il suo esempio darà la forza anche ad altre donne di denunciare le violenze subite.