Il branco armato di caschi, ferocia e manganelli, capitanato da Marco Giallini. Sei episodi su Netflix dove si racconta senza indulgenze il filo su cui cammina in bilico uno Stato fragile che deve gestire la piazza in rivolta. Ovunque essa sia

Il diavolo fa le pentole ma pure i palinsesti, a volte. Così il 15 gennaio, giorno in cui Fratelli d‘Italia lancia una petizione a sostegno degli uomini e delle donne in divisa dall’evocativo titolo «Basta aggressioni contro le forze dell'ordine», Netflix rilascia “Acab”, sei puntate di manganelli, caschi e umanità variegata. Al grido di sottofondo “celerini figli di puttana”, intonato con simpatia dagli stessi poliziotti protagonisti, la serie tratta dal libro di Carlo Bonini e da cui vide la luce un lungometraggio di Stefano Sollima in quel del 2012, pesca dallo stesso corpo di polizia e cambia solo qualche faccia. Stessa ferocia, stesso filo su cui cammina in bilico uno Stato fragile che deve gestire la piazza in rivolta, ovunque essa sia. E mentre tornano gli echi del sangue della Diaz, si ritrova come brusio molesto e scomodissimo quella zona d’ombra che separa la democrazia gestita dal caos individuale, in cui la legge è troppo spesso un’interpretazione.

 

Diretta da Michele Alhaique, Acab, acronimo disturbante di “All Cops are Bastards”, comincia nel buio di una notte di scontri ferocissimi in Val di Susa. Della squadra del reparto mobile di Roma sono rimasti Mazinga e la faccia masticata di Marco Giallini. Con lui più che i colleghi, una famiglia, Valentina Bellè, Pierluigi Gigante e Fabrizio Nardi, branco indivisibile dove vigono codici altri, dell’omertà, della fratellanza, della tribù impenetrabile come una monade, con regole tutte sue. E in cui l’umanità del singolo prova a intrufolarsi, facendo breccia nella scorza durissima di chi ha scelto un lavoro che dell’autunno caldo ha fatto una stagione permanente.

 

Quando si salutano, si toccano, si sfiorano, si incrociano gli sguardi, come una comunità a sé stante. Moschettieri indivisibili, ognuno dei quali vive un’esistenza a metà, spesso privatamente insostenibile, che diventa forte solo in quel gruppo. 

 

A destabilizzare il tutto, tra la forza esibita, il pericolo che incombe dalle luci dell’alba e un privato sgangherato, c’è una solitudine straziante, fatta di trasferte, silenzi, Natali passati sotto la luce fredda della mensa. «Quando ti ho conosciuto pensavo fossi fascista, razzista, violento». «E poi?» «Poi ho capito che eri solo triste». Perché no, i celerini non sono poliziotti come gli altri. Come spiegano Gravino e Bonini, «non arrestano ladri e spacciatori. Sono come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge l’ordine: abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a farne strumento di repressione». 

 

Una scissione endemica, che Acab presenta senza carezze, ma al tempo stesso senza affondi profondi. Ognuno dei protagonisti, compreso il lato buono di Adriano Giannini, porta dentro di sé un fardello pesante che schiaccia ogni coscienza, quel manganello che ha colpito troppo, quella lucidità che è scappata in un momento di tensione, quell’istinto primordiale della giustizia fai da te che si trasforma in vendetta personale. 

 

Ed è questo peso che scaccia la leggerezza a salvarli, riportando a galla un’umanità a tratti perduta dentro il furgone della celere. Perché il vero problema per i palombari è tornare a casa.