La manipolazione politica usa schemi consolidati. Oggi, però, i nuovi media ne espandono il raggio d’azione. Sul tema un esperto di comunicazione rilegge il pensiero di un grande sociologo

Guardando al tema della propaganda secondo una prospettiva anche temporale e storiografica, come invita a fare McQuail, si nota che tra i caratteri che contraddistinguono le fake news moderne va annoverata in primo luogo «la capacità di impattare sui soggetti e sui gruppi sociali con una velocità e un coinvolgimento mai visti prima nella storia della disinformazione»; nondimeno, per l’appunto, la loro facoltà di alterare e distorcere la realtà nella percezione individuale ha conosciuto passaggi di indiscutibile rilievo anche nelle epoche passate […].

 

La manipolazione politica mediante le piattaforme dei nuovi media è diventata un fenomeno pervasivo provocato dalla generalizzazione e ubiquità globale delle tecnologie comunicative di disinformazione; e in questo consiste, giustappunto, una delle specificità contemporanee più accentuate. Al contempo, la «guerra dell’informazione» – la quale «è anche controinfluenza e contropropaganda» – ha largamente travalicato le attività belliche. La disinformazione risulta operativa soprattutto in tempo di guerra (sotto la forma dell’information warfare e, dagli anni Novanta, dell’information cyberwarfare), ma la sua applicazione avviene, altresì, al di fuori degli scenari di conflitto, e il suo impiego con finalità ostili o di destabilizzazione si è incrementato proprio nell’età della post-truth. Anche sulla scorta delle riflessioni di McQuail, si possono compendiare i seguenti elementi chiave della propaganda come pratica comunicativa: la menzogna; la censura e la negazione delle informazioni oppure la sua selezione in un’ottica strategica; l’esagerazione; gli appelli affettivi e all’emozione (volti a suscitare desiderio oppure a instillare paura); il ricorso a una retorica linguistica o a una narrazione visuale che sollecitano direttamente o, comunque, privilegiano gli aspetti non razionali della comunicazione. Aspetti che presentano, dunque, svariati punti di contatto ed elementi in comune con alcuni principi di base del marketing: l’urgenza, l’amplificazione, l’impazienza, l’intensificazione, la decontestualizzazione. Gli uni e gli altri rappresentano pertanto delle forme di promotionalism che oltrepassano o stravolgono programmaticamente i criteri dell’argomentazione razionale, presentandosi come «armi emozionali», nozione alla quale sono fondamentalmente ascrivibili anche le fake news. E ambedue operano sul confine tra la verità, gli assunti epistemici che la riguardano e il linguaggio che la nomina, definisce ed esprime. Su queste linee di demarcazione del marketing e della pubblicità, e le relative zone grigie o nere, si sviluppano, quindi, le convergenze reciproche e le sinergie con la propaganda, e anche con l’ideologia. A conferma, ancora una volta, della scivolosità e dell’ambiguità strutturale e costitutiva della categoria di propaganda e delle aree politico-culturali (e semantiche) limitrofe. Così, rispetto ai numerosi intrecci descritti, una proposta di distinzione concettuale utile è quella fra supporting e undermining propaganda, enucleata dal filosofo del linguaggio Jason Stanley. La prima rappresenta «un contributo al discorso pubblico che viene presentato come l’incarnazione di determinati ideali, di un genere che tende ad aumentare la realizzazione di quegli stessi ideali sia emotivamente che mediante e altri strumenti non razionali», mentre la seconda consiste in «un contributo al discorso pubblico presentato come l’incarnazione di certi ideali, di un genere che tende a erodere quegli stessi ideali».

 

Le inedite forme assunte dalla propaganda si collocano, al pari della totalità degli atti comunicativi contemporanei, sullo sfondo della generale ed estesa condizione di disordine informativo che connota la post-sfera pubblica, la quale si trova, come evidenziano alcuni studi, alla confluenza tra le tendenze post-rappresentative e le occasionali formule alternative di rappresentanza generate dall’ecosistema digitale e, più in generale, da quello mediale ibrido, la categoria (ancorché largamente ambigua) di «postpolitica», l’espansione costante del paradigma della postdemocrazia e l’affermazione della nozione di un’«era postprivata», nella quale la tutela della privacy risulta abbandonata (sul piano individuale), e non prioritaria o eccessivamente difficoltosa (al livello dei poteri pubblici).

 

La sfida neopopulista alla trasfiguratademocrazia liberalrappresentativa si pone precisamente all’interno di questo scenario. Una nutrita letteratura scientifica evidenzia il pronunciato impulso ulteriore che la disinformazione e le notizie prive di basi fattuali con finalità manipolative hanno ricevuto dall’estensione del clima politico alimentato dai neopopulismi […].

 

Le retoriche e, in particolare, il registro comunicativo del neopopulismo degli anni Duemila, con le sue ramificazioni su scala globale, hanno contribuito potentemente a una «politics of misinformation» anche mediante il ricorso alle dottrine e teorie complottistiche in senso proprio, oppure attraverso sinergie con quelle più generiche narrative cospirazioniste che si sono estese a tal punto da convertirsi in un diffuso stile cognitivo, oltre a venire giustappunto impiegate quali «armi» elettoralistiche a tutti gli effetti. E verrebbe così da pensare che dalla cornice criptopopulista del «tutto è comunicazione» degli anni Ottanta si sia passati al «tutto è (variamente) propaganda» degli odierni tempi neopopulisti.