Il riconoscimento accende i riflettori su un territorio straordinario. Specchio delle contraddizioni di un Meridione terreno di scorribande e speculazioni della mala politica

Le onde che si infrangono sulla scala dei Turchi di Realmonte rompono il silenzio che silenzio non è mai stato. Il Sud del Sud, quella provincia che termina con Lampedusa, è così ricca di suoni, di impressioni e di rumori che bisogna solo saperli cogliere. Se non esiste in Italia un’altra provincia che nel raggio di una quarantina di chilometri ha fatto muovere la mente e la penna dei più grandi scrittori del Novecento, è proprio perché questo posto non muore mai, basta stare in silenzio e lasciarsi ispirare. Quarantatré comuni: se la Sicilia è uno dei posti italiani territorialmente più eterogenei – chi ha percorso la Magna via Francigena da Palermo ad Agrigento lo sa bene – la provincia agrigentina ne è lo specchio. Ha al suo interno un po’ di tutto. Camilleri, Sciascia, Pirandello, Tomasi di Lampedusa lo sapevano e, sapendo pure scrivere, hanno condensato, nero su bianco, questo variegato mondo fatto di miniere e mare, di zolfo e sale.

 

Agrigento e la sua provincia, già soltanto per questo e per autori meno noti ma di tutto prestigio come il favarese Antonio Russello, merita il titolo di Agrigento Capitale della cultura, titolo che ha vinto per il 2025. Presentandoti con un portfolio in cui metti già i nomi del gotha della letteratura del Novecento non puoi non vincere. E alla terza occasione ce l’ha fatta. Quella provincia che nelle classifiche di ogni anno è ultima per qualità della vita, che spicca per emigrazione all’estero, vince: come un pugile che dà il colpo decisivo proprio allo scadere per dire: «Io ci sono». Pirandello ci ha costruito la sua poetica e anche questo titolo di Agrigento della Cultura ha tutto: le contraddizioni e il paradosso. Ognuno dei 43 comuni della provincia, infatti, merita una visita, un tour e una menzione in un fascicolo che non riesce neanche contenere le ricchezze di questi luoghi bistrattati. E così come si è creata la strada degli Scrittori Agrigento-Caltanissetta, congiungendo tutti i luoghi dell’immaginario letterario dei grandi autori si potrebbe creare un itinerario altrettanto affascinante: l’itinerario delle cose che non vanno. Del resto Pirandello non vedeva solo le “Lumie di Sicilia” ma anche tutte le storture che chi in questa terra ci vive conosce. Una commistione tra le meraviglie di un territorio incantato e le responsabilità di chi lo amministra.

 

Ad Aragona, la terra della miniera di Pirandello, quella stessa miniera è oggi abbandonata dopo un finanziamento di svariati milioni di euro. A Licata, prima città italiana liberata dal nazifascismo, i bunker sono andati distrutti e non esiste un percorso ufficiale per visitare i luoghi dello sbarco degli Alleati. Ad Alessandria della Rocca, un santuario mariano, una meta appetibile per i devoti, non ha più nessuno che lo apra. A Ribera, città nota per le arance, gli agricoltori non hanno acqua per irrigare gli agrumi. Nei paesi del Belice ancora si lotta per abbattere i villaggi provvisori nati dopo il terremoto del 1968. A Racalmuto il circolo Unione che ha ispirato Leonardo Sciascia, di proprietà di una banca, è in vendita per 16 mila euro.

 

Si potrebbe continuare all’infinito, contando le incompiute (la Sicilia detiene il record in questa classifica) le dighe vuote di questa estate e una rete idrica che perde il 50% dell’acqua delle fonti, sfruttate invece da colossi per pochi euro. Le contraddizioni sono così compenetrate nella storia della provincia da amalgamarsi alla terra. Meraviglie e storture. Destino comune a larghe fette del Meridione d’Italia che sconta anni di ricatti politici, mala amministrazione, privilegio di pochi, malattie per molti. La sanità è una voce emblematica: ospedali, commissariati ormai a tempo indeterminato con pedine politiche che si scambiano il posto fra di loro.

 

Accorgersi di tutto solo oggi per creare un fin troppo facile contrasto tra il titolo ricevuto e i guasti è scontato e banale, come stupirsi del fatto che se mischi rosso e giallo crei l’arancione. L’acqua mancava ancora prima del titolo di Capitale della cultura e su 43 comuni, almeno 37 hanno a che fare da sempre con le “turnazioni”, ovvero l’acqua due volte a settimana. Una cosa che può stupire chi arriva da Bolzano ma non chi in Sicilia c’è stato almeno una volta.

 

Nel bene e nel male Agrigento è questa, da tempo immemore, come a Sciacca si conta la prima opera incompiuta d’Italia. Un albergo cui mancavano gli scarichi fognari. L’itinerario della mala amministrazione potrebbe attirare ancora di più della Strada degli scrittori, ma ha radici antiche e in una terra di dominazioni, forse l’ultima (e ancora presente) è la signoria della mala politica che distrugge e sparisce. 

 

Se ci sono mille ragioni, già nella disponibilità dei media da decenni che ora sparano sulla Croce rossa, per dire che le cose non vanno, il titolo di Agrigento Capitale della cultura vuole attestare che ci sono motivi, in quella terra, per visitarla almeno una volta nella vita. A differenza di altri luoghi che hanno vinto il titolo e con questo hanno celebrato le loro bellezze, ad Agrigento questo titolo occorre come l’acqua che invece manca, per un solo motivo: non morire. Vuole essere quello schiaffo di una provincia che è sì ricca di contraddizioni, che non conta fabbriche, ma conta migliaia di persone che non si sentono ultime al mondo, ma pensano che questa provincia più a Sud possa ancora vivere in un mondo sottosopra in cui anche il concetto di qualità della vita potrebbe essere rivisto. 

 

Lo sanno bene i tanti stranieri che passano per rimanere a vivere a Sambuca di Sicilia, Borgo dei borghi 2016, lo sanno Marcello e Angelo che accompagnano a visitare i bunker di Licata per assaporare l’odore della libertà. Lo sanno quelli che vivono immersi nel barocco di Naro, e quelli che producono vino nelle terre di Menfi, capitale italiana del Vino appena un anno fa, quelli che da Raffadali e dalla valle del Platani esportano pistacchio in tutto il mondo. E chi ha fatto delle rovine del Belice opere d’arte e un luogo in cui sposarsi.

 

Ad Aragona, un’opera incompiuta è diventata un polo artistico grazie al progetto della Farm di Favara che di questi contrasti tra storture e bellezza ne ha fatto la sua forza. A Santo Stefano Quisquina, uno dei posti più belli della provincia, c’è un teatro naturale immerso nelle montagne, opera del genio di Lorenzo Reina. A Siculiana è appena nato un museo su Ayrton Senna, i cui avi sono del paese.

 

La politica, non tutta, ha fatto il suo per distruggere tutto negli anni, ma già ai tempi di Sciascia c’è una frase emblematica affissa al circolo degli zolfatai di Racalmuto che racconta molto dei guasti secolari: «Una volta al circolo dei minatori venne un deputato nazionale, ascoltò i salinari, raccontavano miseria e l’onorevole chiudeva gli occhi come in preda a indicibile sofferenza, infine diede un calcio al tavolo dicendo che perdio, bisognava far qualcosa; dal tavolo cadde una lampada e andò a pezzi, l’onorevole promise grandi cose, ai minatori toccò comprare una lampada nuova». Sostanzialmente disillusa, la provincia non ha mai dato troppo credito alle chiacchiere della politica. Anche adesso. Ma merita comunque una visita. Agrigento, “Così è, se vi pare”.