Dopo il secondo conflitto mondiale, Washington ha assunto il ruolo di protettrice del Vecchio Continente. Tra scambi commerciali e unità d’intenti politici. Ora, con l’affermarsi della potenza cinese, la reazione statunitense si scatena anche contro amici ormai scomodi. E ha il volto incattivito di Trump: o le richieste saranno accolte o scatterà la vendetta

Non meraviglia che il presidente Donald Trump abbia citato la conquista di Marte come obiettivo della sua amministrazione. Mai come oggi gli Stati Uniti sono apparsi simili a quello che il pianeta rosso e il dio omonimo rappresentano nel nostro immaginario collettivo: potenza tecnologica, passione per la guerra e dominio del più forte. Parafrasando un celebre libro nemmeno troppo recente, sono tutto il contrario di un’Europa che (per ora) incarna il volto di Venere: rispetto delle regole, inclusione delle minoranze e aspirazione a un mondo in cui la bellezza coincide con la sostenibilità ambientale e sociale. Marte e Venere, Stati Uniti e Unione europea: due pianeti in collisione. 

 

Ma non era scontato. Il ventesimo secolo si era aperto con l’ascesa di Washington come potenza mondiale (relativamente) benigna, che, salvando l’Europa da una dittatura feroce, se ne era fatta protettrice e con cui aveva alimentato un fitto interscambio commerciale, il quale indicava anche un’unità di intenti politici. Poi la sottovalutazione della crescita cinese ha stravolto gli equilibri. Il ventunesimo secolo è nato con un’America incattivita e spaventata da una Cina che, pur avendo tumulato la democrazia, è diventata ricca e potente, con l’obiettivo dichiarato di forgiare un nuovo ordine mondiale. Trump incarna la reazione americana: opposizione e vendetta a ogni costo, anche a scapito dello Stato di diritto e di vecchi alleati diventati scomodi, quando non inutili.

 

Così la nostra Europa è finita sotto attacco, per quanto in molti facciano ancora fatica a crederlo. Lo è sul fronte orientale, con le ambizioni espansionistiche e imperialistiche di Vladimir Putin e con la forza commerciale della Cina, che l’ha resa irrilevante in diversi settori chiave, dai pannelli solari alle nuove automobili. Ma lo è oggi soprattutto da Occidente, con un’America che la disprezza come soggetto politico e militare e che la considera solo un grande mercato di conquista per le sue multinazionali. Dopo averle combattute nella scorsa amministrazione, Trump ha ora capito che le Big Tech americane – cambiando narrativa, come hanno fatto le piattaforme di Elon Musk e Mark Zuckerberg – possono tornargli utili. Diffondono una disinformazione studiata per sostenere estremismi e sovranismi interni all’Europa con l’obiettivo di smembrarne la coesione politica per poi sottometterla economicamente (a quel punto anche comprare la Groenlandia diventerebbe un gioco da ragazzi). Divide et impera era il motto degli imperatori romani e Trump imperatore si vede. Tanto più quando leader europei come Giorgia Meloni si recano unilateralmente in pellegrinaggio alla sua corte.

 

Per avere successo, però, i «fratelli del tech» – come li definisce la stampa americana – devono, loro sì, aprire l’Unione europea come una scatoletta di sardine, sbarazzandosi di tutte quelle regole sulle piattaforme digitali (come il Digital Services Act) e sull’intelligenza artificiale messe faticosamente a punto durante la scorsa legislatura europea per proteggere la nostra democrazia. Il primissimo passo Trump & friends l’hanno già compiuto: la scorsa settimana il presidente ha chiesto a tre membri democratici dell’unico organo indipendente che sovrintende alla tutela delle libertà civili e della privacy, e a cui è affidata la supervisione delle pratiche statunitensi sull’uso dei dati europei, di scegliere tra il dimettersi o l’essere licenziati. Si trattava di un pezzo chiave dell’accordo sul trasferimento dei dati che Washington e Bruxelles hanno siglato nel 2023, il Transatlantic Data Privacy Framework. Ora la palla e la risposta sono nel campo di Bruxelles.

 

Intanto Trump non ha perso tempo nell’invadere l’Europa con una valanga di richieste, sperando, a ragione, che ci costringeranno ad aprire qualche fianco. Oltre a eliminare tutte quelle regole che limitano lo strapotere dei Big Tech americani e a cedere i nostri dati per potenziare un’intelligenza artificiale che forse farebbe progredire tutto l’Occidente, ma che sicuramente fa ulteriormente arricchire gli Stati Uniti, chiede che compriamo più merci prodotte negli Usa e più petrolio, che eliminiamo le tasse sulle multinazionali (dopo avere raggiunto l’anno scorso un accordo tra i Paesi Ocse su una tassazione globale minima del 15 per cento) e che rinunciamo a una parte sostanziale del nostro welfare per finanziare la nostra difesa e per farci carico di quella dell’Ucraina, oltre che della sua futura ricostruzione. 

 

Se non ottempereremo, gli Stati Uniti non solo ci dichiareranno la guerra commerciale – con dazi compresi tra il 10 e il 20 per cento, a cui potremmo anche reagire e sopravvivere, nonostante l’attuale debolezza economica di Francia e Germania – ma, vero punto dolente, ci lasceranno anche da soli a fronteggiare l’espansionismo militare di Putin. Per dimostrare che le sue non sono solo minacce, lo scorso fine settimana Trump ha trasformato un Paese che è storicamente il migliore amico degli Usa nel Sud America, cioè la Colombia, in capro espiatorio, costringendolo ad accettare il rimpatrio forzato di migliaia di cittadini sotto la pena di dazi del 25 per cento e dell’annullamento dei visti statunitensi.

 

Motivazioni e atteggiamento a parte, non tutte le richieste americane sono irragionevoli: era inevitabile che la protezione a basso costo venisse meno nel momento in cui non è più un interesse americano diretto, come durante la Guerra fredda, o ininfluente, come negli ultimi trent’anni di prosperità mondiale. In fondo, ce lo aspettavamo. Secondo i dati dell’Agenzia europea per la Difesa del 2023, la spesa militare europea ha raggiunto la cifra record di 279 miliardi di euro (contro gli 820 miliardi di dollari degli Usa), mettendo a segno il nono anno di crescita consecutiva a partire dal 2014, quando la Russia invase la Crimea. E, stando alle ultime indiscrezioni, nel 2024 la spesa dei membri europei della Nato dovrebbe risultare in crescita del 50 per cento rispetto al 2014.

 

Il problema sono la velocità dei cambiamenti in corso, la molteplicità dei fronti su cui l’Ue si deve difendere e la lentezza della nostra economia nell’adattarsi a un modello strutturalmente cambiato, in cui tecnologia, innovazione e servizi la fanno da padroni a discapito della manifattura tradizionale. Prendiamo l’Italia, la cui crescita economica non arriva all’1 per cento. Per passare dall’1,5 al 2 per cento del Pil di spese militari, come prevede l’accordo Nato, dovrebbe aggiungere dieci miliardi annui in deficit a una manovra di bilancio che l’anno scorso è stata di 30 miliardi. Senza un aumento della produttività del Paese, in calo da trent’anni, è un traguardo chiaramente irraggiungibile, a meno di insostenibili tagli al nostro Stato sociale: pensioni, scuola, sanità e trasporti. Lo stesso discorso vale per la Germania, anche lei con una spesa militare intorno all’1,5 per cento rispetto al 3 degli anni Ottanta e al 5 chiesto da Trump. E soprattutto con un’estrema destra in auge che condanna la fornitura di armi all’Ucraina, rea di «togliere risorse» ai tedeschi. «La spesa sociale serve a tenere unito il Paese», ha dovuto ricordare il ministro dell’Economia, Robert Habeck

 

Alle richieste americane sul piano militare l’Europa contrappone offerte economiche. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è già detta favorevole all’acquisto di maggiori quantità di carburanti fossili americani. Nonostante un’Europa energeticamente sempre più indipendente non solo non ne avrebbe bisogno, ma per farlo dovrebbe pure rivedere gli accordi sull’importazione di gas meno inquinanti concordati con Joe Biden a partire dal 2027. Più in generale, per commerciare con gli Usa “ricarbonizzati” l’Unione dovrebbe rinunciare a buona parte del Green Deal: non è ancora chiaro fino a che punto potrà fare marcia indietro per accontentare Trump senza penalizzare sé stessa. Di certo il Green Deal sarà a breve oggetto di revisione, almeno nelle parti che penalizzano troppo l’industria europea, per renderlo compatibile con il nuovo Patto per l’industria pulita, che dovrebbe rilanciare la nostra industria nel nome di «semplificazione» e «innovazione». In odore di rinvio sono sia la direttiva sulla due diligence d’impresa sia quella sulla sostenibilità ambientale. 

 

Ma l’Europa non è totalmente indifesa nei confronti degli Usa. Resta il maggiore mercato al mondo, con regole talmente affinate da essere copiate ovunque («effetto Bruxelles»), e uno Stato di diritto tra i più invidiabili. «È chiaro che siamo pronti a difendere i nostri valori e i nostri interessi, se necessario», ha avvertito il commissario per l’Economia, Valdis Dombrovskis, a Davos: «A rispondere in modo proporzionato come abbiamo fatto durante la prima amministrazione Trump». Forte della legislazione anti-coercizione, messa inizialmente a punto contro la Cina, la Ue impose allora dazi su marchi mirati come Harley-Davidson. «Gli effetti furono così pesanti che i modelli destinati al mercato Ue iniziarono a essere prodotti in stabilimenti thailandesi con riflessi importanti anche sull’occupazione», commenta Janina Landau, volto economico di Class Cnbc: «Conti alla mano, i dazi Usa furono un vero e proprio boomerang». Bruxelles potrebbe anche usare il Regolamento di esecuzione dell’Ue, che aggira l’effettivo smantellamento dell’Organizzazione mondiale del Commercio da parte degli Usa e consente di rispondere ai dazi sui beni, su cui gli Usa hanno un deficit commerciale di 161 miliardi di dollari, colpendo il loro surplus commerciale nei servizi (104 miliardi di dollari).

 

Ma nessuno strumento potrà mai funzionare, se gli Stati e i loro cittadini non saranno convinti che senza Unione sarebbero più poveri e meno liberi. E se, anche a costo di escludere qualcuno, i 27 capi di governo non sintetizzeranno in fretta una visione comune su come finanziare la nostra difesa, su come terminare l’unione bancaria per creare un mercato finanziario capace di sostenere lo sviluppo di nuove imprese tecnologiche e su come completare una transizione verde e digitale senza indebolire la competitività europea. A conti fatti, sono proprio gli europei i più grandi alleati, o i più grandi avversari, dell’Unione europea.