Il governo Meloni rende marginali le Camere, abusa di decreti legge e fiducia: si va verso la “capocrazia”

Il maestro Riccardo Muti che dirige il concerto di Natale nell’aula di Palazzo Madama: uno spettacolo di rara suggestione. Il re di Spagna che parla nell’aula di Montecitorio: un evento che trasmette solennità. È bello vedere un Parlamento aperto al mondo. Un po’ meno bello è accorgersi che la Camera e il Senato non sono più al centro del nostro sistema politico (che sulla carta sarebbe ancora una Repubblica parlamentare). Perché fanno sempre meno il loro lavoro, che è quello di discutere, analizzare, modificare e approvare le leggi. L’abbiamo visto pochi giorni fa, quando il Senato ha approvato a tambur battente, in meno di 48 ore, la manovra di bilancio. Nessun dibattito, nessuna analisi approfondita, nessuno spazio per gli emendamenti. Solo un via libera d’urgenza imposto dal governo con il voto di fiducia. Si dirà: non è una novità. Ed è vero: ormai da anni l’ex Finanziaria segue questo copione. Ma ciò che un tempo era un’eccezione è diventato prassi consolidata. In teoria, questo governo non ne avrebbe avuto bisogno. 

A differenza dei suoi predecessori, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni gode di una maggioranza solida, composta da parlamentari selezionati uno per uno dai segretari di partito. Eppure ha fatto ricorso al voto di fiducia con una frequenza da record: secondo il sito Openpolis, ogni 100 leggi approvate, la fiducia è stata posta 45 volte, con una media di tre al mese. Non solo. In 28 casi è stata addirittura doppia, sia alla Camera sia al Senato: sono 28 leggi che nessuno dei due rami del Parlamento ha potuto emendare come avrebbe voluto. Dietro a questa abnorme anomalia c’è una pioggia di decreti legge. Previsti dalla Costituzione solo «in casi straordinari di necessità e urgenza», sono ormai diventati lo strumento legislativo prediletto dai governi. E Giorgia Meloni ne ha firmati più di qualsiasi altro premier nelle ultime quattro legislature, con una media di 3,6 decreti al mese, quasi uno a settimana. 

Ma può un Parlamento esaminare e votare questi decreti varati a raffica in soli 60 giorni, come prescrive la Costituzione? La risposta è no. La soluzione empirica adottata è un monocameralismo di fatto: una Camera discute e vota, l’altra si limita ad approvare senza approfondire. E non c’è spazio nemmeno per le leggi di iniziativa parlamentare: solo 43 su 170 portano una firma diversa da quella del governo. Così abbiamo fatto l’abitudine a questo metodo, con il quale si utilizza un atto normativo che secondo la Costituzione dovrebbe essere emanato solo «in casi straordinari di necessità e urgenza» e lo si fa approvare con uno strumento parlamentare che non fu neanche immaginato dai padri costituenti. 

Un brillante costituzionalista come Michele Ainis ha notato su Repubblica che il bicameralismo perfetto è diventato un «monocameralismo alternato» e che la democrazia parlamentare si è silenziosamente trasformata in una «capocrazia», nella quale parlamentari scelti dai leader di partito votano disciplinatamente le leggi e i decreti decisi dal governo, anzi dalla premier. Arrivando alla provocatoria conclusione che, «se ogni votazione si trasforma in un applauso, con i listini bloccati alle elezioni e con la fiducia in Parlamento, tanto vale abolire il voto». Una provocazione, certo. Ma sul tavolo resta una domanda pesante: siamo sicuri che la nostra sia ancora una Repubblica parlamentare?