Il commento
Le sliding doors delle prigioni per i soliti noti
Mentre le carceri scoppiano, boss e ras tornano liberi. È l’effetto di norme, stratagemmi e scappatoie
Entrano a frotte, spinti dalla girandola dei venti nuovi reati che la maggioranza si è inventata a colpi di decreti. Intasano prigioni già ben oltre i limiti di un sovraffollamento tollerabile. Con carceri, come Regina Coeli, che segnano più 400 detenuti rispetto alla capienza. Altri, invece, molto più pericolosi, escono alla chetichella. Tornano sul territorio e lo presidiano. Perché «la presenza è potenza». Accade a Palermo, a Napoli e in Calabria. E a Roma, dove i ras delle piazze di spaccio lasciano le celle grazie a un meccanismo oliato da almeno sei anni e che solo adesso ha incontrato un primo inceppamento con 32 arresti, a fine gennaio. Il sistema è quello di strumentali certificati di tossicodipendenza che sono un biglietto di sola andata per più confortevoli comunità di recupero. Strutture miraggio per chi soffre davvero fino al suicidio, scorciatoia di libertà per chi la droga la distribuisce a fiumi.
Basta uno psicologo dell’Asl compiacente per scavalcare il muro, senza evadere. A Rebibbia, recentemente, un professionista così lo hanno trovato, mettendolo ai domiciliari e scoperchiando un calderone fatto di corruzione stratificata. Mille euro per un salvacondotto. E c’era, ovviamente, la fila, alimentata da uno stuolo di procacciatori d’affari, nel giro di quelle cooperative che, parafrasando Massimo Carminati, più che tra il mondo di sopra e quello di sotto, fanno da cerniera tra dentro e fuori. Ne hanno approfittato negli anni broker internazionali della cocaina al servizio dei Bellocco di Rosarno o dei Giorgi di San Luca e il faccendiere degli Alvaro di Sinopoli. Ma anche un rapinatore di banche assassino, il balordo che ha sparato dopo una lite in un bar, il figlio di uno dei pezzi grossi della Magliana e uno del giro dell’estrema destra di Carminati. Tanto lavoro per medici e psicologi. Che significa anche più straordinari per tutti. Sarà anche per questo che la giostra ha girato a lungo. Un po’ come accadeva con gli ospedali psichiatrici giudiziari, abominevole discarica ma anche regno dei finti pazzi alla Michele Senese.
Se il carcere è lo specchio del Paese, soprattutto qui la forza repressiva si abbatte su deboli e piccoli e grazia grandi e potenti. Dell’impunità ai colletti bianchi, tra abolizione dell’abuso d’ufficio e picconate al concorso esterno, molto si è detto. Poche, deboli e isolate voci invece su quel che accade sul fronte antimafia, all’ombra della gigantesca macchina fumogena che si mette in moto per le rituali celebrazioni. Tra settembre e novembre dell’anno scorso – per fine pena, permessi premio e semilibertà concessi da magistrati di sorveglianza di manica larga, per le pronunce di Cassazione e Consulta che hanno attenuato il rigore contro i boss e per lungaggini processuali – una ventina tra rampolli di cosca e anziani padrini sono tornati liberi.
Ne ha scritto tanto Salvo Palazzolo, inviato di Repubblica, che per questo, pochi giorni fa ha rimediato l’ennesima minaccia. Tanto seria da smuovere le autorità a metterlo sotto scorta. Uno di questi boss, è il mafioimprenditore palermitano Franco Bonura. Era in libertà dai tempi del Covid e lo ha riportato dentro pochi giorni fa un’indagine coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia. Una tempesta perfetta gli aveva riconsegnato la possibilità di ritrovare per strada molti di quelli con cui aveva già provato a ricostruire la cupola di Cosa nostra nel 2006. Ambizione che evidentemente non aveva accantonato. E che gli altri coltivano ancora. Magari insieme con chi arriverà a dargli manforte. Del resto, il bollo di mafia non è più di ostacolo ai benefici da buona condotta. E per alcuni, solo per alcuni, i portoni delle carceri sono solo sliding doors.