Ho visto cose
Sanremo 2025: retorica, buoni sentimenti e noia. Ma senza cumbia
L'obiettivo di Carlo Conti è quello di chiudere presto. Lo show che fine ha fatto? Prendendo in prestito il titolo di Willie Peyote, viene da dire solo: "Grazie ma no, grazie"
Carlo Conti ha fretta. Molta fretta. Sembra quel paziente in fila dal medico della mutua quando si accorge che prima di lui è entrato un informatore e che gli toccherà perdere un sacco di tempo prezioso. Invita gli amici sul palco ma alla seconda parola guarderebbe volentieri l’orologio che non ha sul suo smoking blu Sanremo al punto che Gerry Scotti in gran forma e la radiosa Antonella Clerici vengono trattati come due vallette d’antan.
Insomma la prima serata del festival corre via veloce, un brano dopo l’altro e visto che gli ingredienti di contorno latitano alla fine resta assai poco. E viene da pensare che l’obiettivo sia stato raggiunto.
Le premesse annunciate vengono confermate come un’implacabile predizione: niente scosse, tutt’al più una generosa rimestata nel pentolone della retorica, quella alla portata di tutti che si va sul sicuro. Così comincia col ricordo di Ezio Bosso sul palco nel 2016 (perché anche Carlo Conti all’Ariston ha fatto cose buone) e la sua frase simbolo, «La musica come la vita si può fare solo in un modo, insieme» ma nessuno la sente perché l’audio scompare e se non è un segno del destino questo allora ditemi voi.
Poi sempre con un ritmo sostenuto volano uno dopo l’altro il pensiero a Fabrizio Frizzi con la sua voce, un saluto a Pippo Baudo, evviva Mike il più grande di tutti, fino al momento “chi tiene mamma nun chiagne”, per tenere insieme il testo di Cristicchi e la commozione del conduttore. Sono queste le piccole spinte che segnano la nuova era targata Conti, che per distanziare il suo festival da quello di Amadeus che aveva chiamato Mattarella, pensa bene di scrivere al Papa. E la differenza tra i due si riassume tutta qui. Stato e Chiesa, Costituzione contro buoni sentimenti, in un festival tristanzuolo che è nato vecchio e il suo primo giorno già se lo porta malino.
Tutto scorre e guarda all’indietro, persino gli “Incoscienti giovani” di Achille Lauro sono chiusi in un vecchio frac, tradizionale, melodico seppur romanticissimo, mentre tutto scorre, alla ricerca di un sussulto seppur minimo per far dire al pubblico imbolsito “siamo svegli!” come Piperita Patty sul banco di scuola. E continua la retorica furbetta, che cerca l’emozione al citofono, rende tutti più buoni e fa vestire Tony Effe da prima comunione.
E tra il cappotto di Irama, la regina Giorgia e il petto nudo Rkomi che non ha ancora imparato a pronunciare le vocali arriva l’atteso momento per la pace, puntuale come i divani in sconto fino a domenica. «Tante guerre, ci sono troppe guerre, e alla fine queste guerre tolgono gioia all’infanzia» dice il signor Carlo sempre con la sua ansia da Bianconiglio per lanciare "Imagine" di Noa e Mira Awad, seguito a ritmo dalla platea che indossa i braccialetti colorati come quelli che si usavano guardando “High School Musical on ice”, giusto per capire il livello emozionale.
Scompare lo show, le gag, l’abbraccio di una bizzarra banda di burloni che si sentivano comunità, costruita negli ultimi futili anni. Le canzoni sembrano tutte o quasi già sentite, l'entusiasmo di Jovanotti in tuta gold ricalca quello di Roberto Benigni e alla fine resta solo l'ansia da compito in classe. Così prendendo in prestito il titolo di Willie Peyote viene da dire solo: "Grazie ma no, grazie".