Drammaturga, scrittrice, attrice, in Italia è stata tra le pioniere delle sperimentazioni. "È una forma di umanesimo, usiamo tecniche artigianali per arrivare a stimolare percezioni sensoriali"

Drammaturga, scrittrice e attrice, Chiara Lagani è una delle figure di spicco del teatro contemporaneo italiano. Nel 1992 fonda a Ravenna, insieme a Luigi De Angelis, la compagnia teatrale Fanny & Alexander, prolifica e innovativa, con cui ha messo in scena spettacoli e radiodrammi, collaborando con scrittori e grandi attori tra cui Elio Germano. L’ultimo premio, Ubu 2024 Miglior spettacolo dell’anno (ex aequo), è andato a “Trilogia della città di K.”, firmato da Federica Fracassi con la compagnia ravennate, tratto dall’opera di Ágota Kristóf. La dolorosa storia di due gemelli dall’infanzia all’età adulta, uno spettacolo costellato di tecnologie vocali, video, rumori.

Chiara Lagani, come nasce il rapporto tra Fanny & Alexander e le nuove tecnologie?

«Non esiste un evento fondativo. La nostra generazione, quella dei teatri anni Novanta, ha introdotto questi linguaggi nel teatro in maniera naturale, basti pensare alle compagnie Motus e Teatrino Clandestino. Per noi era naturale accedere a quei linguaggi mescolandoli a letteratura,  cinema, arti visive e pittura».

Un filo rosso collega quelle esperienze allo spettacolo digitale di oggi. Lei è attualmente in tournée con “Maternità”, tratto dal romanzo autobiografico di Sheila Heti. Che significato ha la presenza del telecomando?

«L’autrice compone il suo libro di domande difficilissime che rivolge ai Ching. Lancia i dadi e si fa rispondere, come se fosse scelta dal destino. Questa soluzione ci sembrava un po’ solipsistica, così io e Luigi De Angelis abbiamo ideato una struttura secondo cui è lo spettatore, come i Ching, a rispondere con il telecomando ai quesiti della protagonista su questioni scottanti».

L’idea che lo spettatore sia coprotagonista non rischia di rivelarsi demagogica?

«Niente affatto. È un antidoto contro la demagogia, anzitutto perché il teatro prevede la compresenza dei corpi, qualcosa di antichissimo che spinge il pubblico a un’assunzione di responsabilità. L’interazione con un’altra persona che ti pone domande importanti crea emozioni molto forti. Alcuni si commuovono, altri provano un senso di fastidio, altri ancora vogliono parlare».

A volte il teatro digitale viene criticato perché rimuove la centralità del corpo. Cosa ne pensa?

«Il nostro uso della tecnologia è una forma di umanesimo, usiamo tecniche artigianali per arrivare a stimolare percezioni sensoriali. I corpi restano sempre al centro».