Le deportazioni e il blocco a nuovi accessi disegnano una mappa degli interessi di Donald Trump nel Continente. Pesano il business e le sinergie sul crimine organizzato.

Sono bastate sei ore perché il sogno si trasformasse in un incubo. Il tempo tra l’annuncio della raffica di decreti della nuova era Trump e la firma sui dossier sul palco davanti alla sala stracolma di fan. Non è stato necessario neanche varcare l’ingresso delle Casa Bianca, è stato sufficiente prestare giuramento sulla Costituzione. La stessa che ha infranto di lì a poco inaugurando la Golden Age, la nuova età dell’oro partorita dal motto del Maga, il Make America Great Again.

 

Passata la mezzanotte del 20 gennaio, decine di migliaia di immigrati in attesa di raggiungere da giorni, spesso settimane, uno degli 8 ingressi che separano i confini tra il Messico e gli Usa, si sono visti cancellare di colpo l’appuntamento fissato con i funzionari delle dogane. Una semplice mail li avvertiva che le domande erano state annullate. Niente più richieste di asilo o ingresso per motivi umanitari o familiari. Persino l’applicazione Cbp One, quella usata per chiedere e registrare l’incontro con gli uffici d’immigrazione, ha smesso di funzionare. Eppure, dal 2023, quando era stata istituita, aveva elaborato e concesso 1.450 appuntamenti al giorno in tutti i valichi che scorrono nel Nord del Messico, da Tijuana a Matamoros.

 

Lungo il Muro voluto dal tycoon sin dal primo mandato, ma mai finito di costruire, tra la gente che a migliaia attendeva il proprio turno sin dalla sera precedente, si è diffuso il panico. Pianti, urla mentre in tanti tentavano freneticamente ancora di scaricare e aggiornare quella applicazione. La fatica accumulata in mesi di marce forzate, schivando i pericoli della giungla tra Colombia e Panama del Darien Gap o le agguerrite gang dei cartelli pronti a estorcere, arraffare, sequestrare e incassare riscatti, alla fine è prevalsa. I social sono stati invasi di video della disperazione. Una catena virtuale che si è allargata e ha rovesciato su questo popolo di disperati, venezuelani, salvadoregni, nicaraguensi, haitiani, uno tsunami di angoscia e di vero terrore. I cellulari hanno iniziato a trillare, dall’altra parte del confine i parenti in attesa chiedevano notizie. Ma confermavano che quell’incubo era tutto vero. Anche loro, sprovvisti di documenti, da anni trapiantati nella terra promessa, adesso rischiavano di essere arrestati e deportati. La fine di un’epoca. La fine degli Usa come Paese delle grandi occasioni. Perché Donald Trump non ha solo lanciato la crociata contro i 20 milioni di potenziali migranti illegali presenti nel Paese, ma ha abolito lo ius soli.

 

Il leader del nuovo ordine mondiale non è il primo ad avviare il rimpatrio forzato degli immigrati senza documenti. Dai dati ufficiali del ministero della Politica migratoria messicano si scopre che tra il 2009 e il 2024 ne sono stati riportati a casa 4.439.332; Barack Obama, durante il suo doppio mandato, ha raggiunto il record di 1,8 milioni; Joe Biden si è fermato a 824 mila. Ma nessuno, come il leader più potente della Terra, ha osato lanciare un’offensiva di questa portata. Solo un giudice di Seattle si è opposto alla deportazione, termine di dubbia interpretazione, bloccando il provvedimento che ha portato davanti alla Corte Costituzionale. Ma Trump ha reagito con la stessa smorfia di disappunto con cui aveva accolto poco prima l’appello alla pietà della vescova della diocesi episcopale di Washington Mariann Edgar Budde. Mentre si annunciava l’invio alle frontiere meridionali di 10 mila soldati, oltre ai 7 mila già presenti, in giro per gli Usa scattavano i blitz dell’Homeland Security, uscivano i primi dati dei raid e le stime future: a rischio sono almeno 1,2 milioni di figli di immigrati di seconda generazione. Nelle foto apparse su tutti i giornali si vedono gli immigrati in catene, una scena che ricordava i Talebani catturati in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001 e destinati a Guantanamo. 

 

Tremila chilometri più a Sud, a Città del Messico, la presidente Claudia Sheinbaum si affidava al suo pragmatismo di scienziata. «Calma, niente panico», dichiarava a una popolazione angosciata e di colpo incerta. Nessuna rottura ma l’invito a mantenere quella freddezza che la partita impone. La prima donna alla guida del Messico ha già messo a punto un piano che garantisce almeno 35 mila posti di lavoro nel tessile, i servizi, l’edilizia. «Tutti saranno accolti e sostenuti, nessuno sarà lasciato indietro», ha spiegato. «Un conto sono le parole, le frasi, le minacce; un conto quanto è scritto nei decreti. Li leggeremo e poi valuteremo cosa fare. Vedremo chi ha bisogno dell’altro».

 

C’è stato un primo contatto telefonico tra il ministro degli Esteri messicano Juan Ramón de la Fuente e il segretario di Stato Marco Rubio. Non è il momento di alzare la tensione. Oltre ai migranti ci sono i Cartelli adesso considerati organizzazioni terroristiche contro i quali agisce l’esercito.

 

L’unico capo di Stato dell’America Latina contattato da Donald Trump è stato Nayib Bukele, il presidente del Salvador noto per la sua durissima campagna contro la criminalità e per aver sconfitto le maras che affliggevano il Paese. Ci è riuscito anche a costo di abolire ogni diritto civile e costruendo centri di detenzione come campi di concentramento dove sono rinchiuse quasi 100 mila persone, senza un processo e senza una difesa. Ma i salvadoregni sono contenti. Tra i due presidenti non c’è solo sintonia su come si deve sconfiggere la criminalità. C’è il business delle criptovalute. Bukele introdusse anni fa il Bitcoin come moneta nazionale. Definì rivoluzionaria la sua idea. Ha resistito e adesso raccoglie il consenso importante del capo della Casa Bianca. Anche il presidente Usa ha investito nel suo meme coin “Official Trump”: gli ha fatto guadagnare 12 miliardi di dollari in due giorni.