Politica
10 aprile, 2025

Voglia di pace dalla piazza al campo largo

I raduni a Roma e quelli di Bologna e Firenze. Organizzati dai partiti o dalle associazioni. Le manifestazioni riconquistano dopo anni l’agenda. E allentano le divisioni a sinistra

È tornato in piazza, molteplice, reticolare, ostinato, disallineato, "non monolitico e non unilaterale" come lo definì Berlinguer nel 1983. Il 15 marzo a piazza del Popolo a Roma, il 5 aprile ai Fori imperiali (la manifestazione dei Cinque stelle, l’unica organizzata da un partito), il 6 aprile a Bologna e Firenze di nuovo in forma civica. Impossibile mettergli un’uniforme, avvolgerlo in un unico colore – la sua bandiera è l’arcobaleno – ma la prima volta dopo tanto tempo il popolo della pace si è fatto sentire. "Siete usciti dalle case e scesi in piazza, questa è l’unica maniera di vincere" ha esultato ai Fori Imperiali padre Alex Zanotelli, 86 anni, rivisto su un palco dopo una vita. Un fiume carsico che, anche quando emerge, non è di altri se non di se stesso, come ha ricordato un mese fa dal palco di piazza del Popolo il fondatore della Comunità di sant’Egidio Andrea Riccardi: "La passione di questa piazza non può essere umiliata da mediocri letture partitocentriche italiane. Ti avvicini a quello o stai con un altro? Non umiliamola. Ragioniamo alla grande, perché questa piazza è ben di più".

 

Erano più di vent’anni, dalla seconda guerra in Iraq, che la domanda di pace non incrociava l’agenda globale. Alla vigilia di quel conflitto, era il 15 febbraio 2003, solo a Roma sfilarono in tre milioni, sembra un numero irreale confrontato con quelli di oggi. I "corpi di pace", come li ha definiti “Avvenire”, erano tornati a farsi sentire tre anni fa, il 5 novembre 2022, la prima manifestazione pacifista dopo l’invasione dell’Ucraina, una marea umana, la prima dopo il Covid, sul palco la società civile, Maurizio Landini con la Cgil, don Luigi Ciotti con Libera, Riccardi con Sant’Egidio. Non certo i politici.

 

Non si erano ancora visti i massacri del 7 ottobre e l’orrore Gaza, il trionfo di Trump, l’ascesa dell’Afd, l’umiliazione di Zelensky nello studio Ovale, il piano ReArm, la lavagna dei dazi nel giardino delle Rose. Si era, e forse si è ancora, solo alle avvisaglie di un equilibrio che stava per andare in frantumi. E quello radunato a piazza San Giovanni – oggi trasversale a più piazze – era un popolo di sinistra senza casa. Privo di una rappresentanza politica. Il Pd non era ancora guidato da Elly Schlein (che era alla manifestazione, applaudita), il segretario era un Enrico Letta prossimo all’uscita, quelle persone che adesso il dem Andrea Orlando, parlando del corteo di sabato, ha chiamato «volti e storie che abbiamo visto tante volte alle nostre manifestazioni» erano furibonde, intente a contestarli, i dem. E anche Conte, che prova da tre anni a intercettare questa spinta, era troppo vicino all’esperienza di governo per poter credibilmente interpretare, come prova a fare oggi, il “costruttore di pace” (da premier non ha abbassato le spese militari, né si è sottratto all’impegno Nato del 2 per cento del Pil).

 

Ma un conto è il popolo, un conto i partiti. Può essere oggi il pacifismo un primo pilastro della costruzione dell’alternativa? Conte dice di sì. Di certo “no al riarmo” è il perno su cui il leader M5S sta facendo leva per costruire la nuova incarnazione del suo Movimento: in piazza con lui per la prima volta c’erano le associazioni, mondi che sono sempre stati a una certa distanza dai Cinque stelle anti-sistema, un segno tangibile d’uscita dei contiani dal settarismo prima maniera, una normalizzazione nel percorso “progressista”. E di certo, per quel che riguarda la costruzione di un’alleanza, il passaggio serve a segnalare l’ingresso in una fase di “disarmo bilaterale”, come l’ha definito il “Domani”: anche i Cinque stelle – avvicinandosi appena alla linea “testardamente unitaria” di Schlein – escono dalla continua rivendicazione di ciò che li rende diversi dal Pd (e migliori, ovviamente). Almeno per un giorno: dal palco del 5 aprile non è arrivato (quasi) alcun attacco, addirittura intervistato dal “Fatto” Conte ha precisato: "Non lavoriamo per mettere in difficoltà strumentalmente altri partiti"; un miracolo, visto che fino a qualche mese fa non perdeva occasione per definire "bellicisti" i dem. Questa linea di appeasement ha tutto un suo filone, un futuro possibile: l’accordo per le elezioni in Campania e le altre Regionali, i referendum, eccetera.

 

Certo, appena si esce dalla piazza e si rientra in Parlamento, il discorso cambia ancora. È bastata lunedì la presentazione alla Camera della mozione dei Cinque stelle sul riarmo a far salire di nuovo a galla tutto. Con in Aula i Cinque stelle pronti ad articolare il loro anti-europeismo ("i leader Ue sono pazzi invasati guerrafondai") e filo Trumpismo ("il conflitto ucraino ha imboccato la via della pace solo grazie a Trump"). Con il Pd intento a limare il proprio testo in modo che le varie componenti si ritrovino di nuovo sulla linea del "cambiamento radicale" del piano von der Leyen, come nel voto di un mese fa. Non può sfuggire che sull’Europa gli atteggiamenti sono opposti: da una parte si lavora sull’Unione della difesa comune, dall’altra, come Conte sabato, si parla dei "governanti europei che stanno affogando i nostri principi sotto un cumulo di inganni". L’Europa madre, l’Europa matrigna. Per via dell’antieuropeismo, il nuovo M5S ritorna più vicino alla Lega, con la quale ha in comune anche la non ostilità, per non dire simpatia, per Trump.

 

Ecco quindi che, portata dentro le Aule e dentro i Palazzi, radicalizzata nello scacchiere delle mozioni, quella ispirazione pacifista rischia di mutarsi in tatticismo, uguale e contrario al tatticismo opposto dei super fan di von der Leyen, da Carlo Calenda in su, che sognano uno schieramento trasversale nel nome del ReArm, una nuova maggioranza Ursula. Al contrario, tenere insieme la molteplicità di queste piazze, senza tradirla, appare assai più complesso. Ed è una sfida tutta ancora da cominciare: anche tra chi su quei palchi ha scelto di non salire.

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