Lala, nome di fantasia, sognava di fare l’assistente di volo. A 22 anni, senza un titolo universitario, poteva essere un ottimo lavoro. Girare il mondo, conoscere paesi e popoli diversi. E poi la divisa: il riconoscimento di uno status che le avrebbe conferito autorevolezza. La paga era buona: 26 dollari l’ora oltre ai rimborsi giornalieri nelle trasferte. «Porteremo soprattutto vip verso i Caraibi», le dissero quando decise di rispondere al telegramma in cui la invitavano a presentarsi a Miami, nella base della Global crossing airlines, l’operatore dominante nella rete di vettori charter nota come Ice Air.
L’avevano pescata su LinkedIn dove aveva postato il suo curriculum. Raggiante, aveva raggiunto la Florida e dopo due giorni di prove, decima su 60 candidati, era stata presa. Sognava già quanta gente famosa avrebbe conosciuto. Ma la realtà si è dimostrata ben diversa. Al posto delle celebrità si è trovata duecento immigrati illegali che venivano deportati verso l’America Latina. Honduras, Guatemala, Messico e poi Salvador. Gli aerei erano stracolmi. I passeggeri erano in maggioranza uomini, ma c’erano anche donne giovani, ragazzi, spesso bambini. Avevano tutti le manette ai polsi unite con una catena alle caviglie, ancorate a loro volta a dei ceppi.
Oltre a Lala, c’erano altri sei assistenti. Sono loro ad aver svelato al mondo come venivano estradati e consegnati agli agenti del Cecot, il supercarcere del Salvador creato dal presidente Nayib Bukele e ammirato da Donald Trump, quasi 10 mila migranti nei 254 voli effettuati fino al 21 marzo scorso. Lo hanno fatto con la garanzia dell’anonimato per paura di ritorsioni.
Confermare quanto hanno raccontato non è stato facile. Per il rifiuto della Ice Air di rispondere alla richiesta di chiarimenti e per il segreto che avvolgeva l’intera operazione. Ma i giornalisti di ProPubblica, sito web di giornalismo investigativo al servizio del pubblico pluripremiato, sono riusciti a confrontare le versioni e a stabilire che sono coerenti tra loro. Anche il New York Times ha ripreso l’inchiesta: un ulteriore attestato di credibilità. Lala e i suoi sei ex colleghi di lavoro, tutti oggi usciti da quel vero incubo, hanno illuminato dall’interno cosa accadeva durante i voli. Gli stessi messi in mora dall’ingiunzione di un giudice della Corte Suprema di Washington, ordinanza che poi è stata sospesa con un secondo verdetto lasciando le cose come stanno.
I trasferimenti erano affidati a voli charter non a C-17 dell’Aeronautica militare, come diceva l’amministrazione Trump. I passeggeri erano trattati come detenuti, sebbene non avessero commesso reati penali, sorvegliati da dozzine di contractor dipendenti dell’agenzia Akima, quindi personale militare. A bordo c’era, di solito, anche un agente dell’Ice e due infermieri. Gli steward e le hostess dovevano solo garantire l’apertura e la chiusura dei portelloni e servire le guardie armate. Spettava a queste ultime consegnare cibo e acqua ai passeggeri e accompagnarli ai bagni. «A noi non restava altro che guardare dritto davanti a noi senza fare altro», ha raccontato Lala. «Esistevano regole precise che abbiamo imparato a suon di rimproveri e segnalazioni. Non bisognava parlare con i detenuti, non dare loro da mangiare. Vietato anche solo guardarli».
Il primo volo fu un vero shock. Lala pensava fosse un’eccezione. Scoprì che era la norma. Tutto quello che le avevano insegnato al corso di quattro settimane previsto dalla Federal aviation administration non serviva a nulla. Non le era stato detto che si sarebbero trovati con dei passeggeri legati mani e piedi a delle catene. «Nel corso ti insegnano soprattutto ad evacuare il velivolo in 90 secondi», ha ricordato Lala a ProPublica. «Ti alleni a bordo di un Airbus A320. Impari le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, come spegnere gli incendi. Devi sostenere test scritti e fisici; se non li superi almeno al 90 per cento te li fanno ripetere. Ci veniva ricordato decine di volte che il nostro lavoro era una vocazione, con un codice professionale. Non importava, dicevano, chi fossero i passeggeri, gli assistenti di volo erano responsabili della cabina e della sicurezza».
Un giorno l’azienda comunicò che aveva allargato il proprio giro d’affari e sottoscritto un contratto governativo. Non disse quale. Spiegò al personale di bordo che ci sarebbero stati cinque voli a settimana, spesso fino a tarda notte. Lala iniziò a viaggiare in Guatemala, Honduras, Colombia, fermandosi a Panama per il rifornimento di benzina. Guardando tutti quei prigionieri legati tra loro e ai sedili si chiedeva come avrebbero fatto a far defluire tutti in poco più di un minuto. «All’inizio – racconta ancora Lala – avevo paura di quella gente. Temevo che scoppiassero delle rivolte. Ma poi, vedendo le loro facce, le foto che scattavano dai finestrini, l’angoscia che provavano perché si era infranto il loro sogno di restare negli Usa dove magari risiedevano da anni, ho cominciato ad avere pena. Tra l’altro non potevo assisterli, neanche guardarli in faccia. Ricordo che qualcuno, in spagnolo, mi lanciava un hola, ciao, e io di rimando ho risposto con un hola. Sono stata subito rimproverata dai contractor. I padroni dell’aereo erano loro e loro dovevamo servire. Ci chiedevano di riscaldare il loro cibo, di servire da bere. Ci trattavano come se fossimo le loro cameriere», ha aggiunto Akilah Sisk, ex hostess del Texas. «La tensione era così forte che rischiavamo di scontrarci con le guardie armate piuttosto che con i passeggeri detenuti», aggiunge Lala nel suo racconto. «Abbiamo spesso ricevuto delle mail di rimprovero dalla direzione della Global. Si lamentavano dei problemi che creavamo anche solo segnalando il malfunzionamento dei servizi. Temevano di perdere il contratto con il governo».

Il Center for constitutional rights, gruppo di difesa legale, ha ottenuto copia del Manuale delle operazioni aeree di Ice Air. Si descrivono anche i dispositivi usati a bordo dei velivoli per controllare i passeggeri detenuti. Maschere anti-sputo, guanti di pelle ruvida, tutori per le gambe, cinghie di traporto, coperte di contenimento. Uno di questi è noto come Wrap: è un incrocio tra una camicia di forza e un sacco a pelo. Uno dei sette assistenti di volo ricorda di averlo visto applicare durante una deportazione. «Lo chiamavo burrito – ha detto – perché i prigionieri vengono avvolti con questa specie di coperta in posizione verticale; se si ribellano sono distesi sui sedili e ci restano fino a destinazione». L’Ufficio per i diritti civili e le libertà civili del dipartimento della Sicurezza Interna ha indagato sui molti reclami e denunce dei richiedenti asilo sottoposti a questa vera tortura. Ha ammesso che l’Ice Air non aveva «politiche adeguate» sul wrap. Molte cause sono state archiviate, altre ancora pendono davanti al giudice.
Rimproverata, bistrattata, delusa, Lala ha deciso di licenziarsi dopo l’ennesimo episodio di intolleranza. «Volavamo sopra il Messico – ricorda – In coda all’aereo è scoppiato il caos. Una bambina era svenuta. Aveva la febbre alta e respirava affannosamente. Ho afferrato la bombola di ossigeno d’emergenza e sono andata verso la famiglia di quella ragazzina. A bordo c’era anche un’infermiera ma non si è mossa. I contractor mi gridavano di restare al mio posto. Ho infranto le regole: ho parlato con la madre, mi ha detto che la sua bambina soffriva di asma. Lei stessa ha avuto un attacco epilettico e non era in grado di fare nulla. Tutti ammanettati, compresa la piccola. Sono riuscita a salvarla. È stato il culmine di un vero incubo. In quel momento ho deciso di licenziarmi. Ma ho deciso anche di raccontare quanto ho visto e fatto. A costo di pagarne il prezzo. Lo meritavano quegli immigrati».