Con un imprevedibile ma tipico colpo di teatro, Donald Trump ha annunciato la sospensione delle aliquote per tre mesi. Quello che il tycoon aveva definito come il “Liberation day” è già diventato l’ennesimo attacco (economico) al resto del mondo che deve “temere” gli Stati Uniti, nell’idea trumpiana della gestione del potere. Una pausa concessa a tutti, ma non alla Cina che vede volare la tassazione al 125 per cento. Una mossa fatta per rivitalizzare la borsa americana che aveva subito un tracollo. Wall Street ha subito reagito benissimo, molto peggio le borse europee e sempre male Hong Kong, la peggiore da giorni. In un concitato discorso, il presidente statunitense aveva accusato il resto del mondo di aver sfruttato gli Stati Uniti e aveva snocciolato le percentuali che colpiranno tutti i Paesi che commerciano con Washington. Tutto rinviato, almeno per ora, ma tutto estremamente labile.
Le tariffe minacciate da Trump prescrivono un 10 per cento minimo su praticamente tutto l’import, ma questa percentuale raddoppia o triplica, arrivando quasi al 50 per cento per una sessantina di Paesi della lista nera. Per Pechino la situazione è addirittura peggiorata, ma tutti gli Stati asiatici restano in trepidante attesa, visto che sono stati quelli accusati maggiormente. Per la Thailandia resta il 36 per cento, per il Vietnam il 46 per cento e per la piccola Cambogia addirittura il 49 per cento. Un trattamento di riguardo è stato invece riservato all’India, che ha visto fermare la tassazione nei suoi confronti al 26 per cento.
La borsa di Nuova Delhi ha reagito piuttosto bene alla mossa trumpiana, e addirittura tutti i titoli delle aziende farmaceutiche, totalmente risparmiate dalla nuova tassazione, sono schizzati alle stelle. E con la pausa le prospettive della borsa indiana appaiono ancora più rosee. Soltanto il comparto farmaceutico indiano ha un export verso gli Stati Uniti di quasi 9 miliardi di dollari annuali e insieme a prodotti elettronici e gemme rappresenta il grosso del commercio fra i due paesi. Subrahmanyam Jaishankar dal 2019 è il ministro degli Affari Esteri del governo indiano, un fedelissimo del presidente Narendra Modi e membro del gabinetto presidenziale. Diplomatico navigato, è stato ambasciatore in Cina e negli Stati Uniti, ed è il più longevo ministro degli Esteri dai tempi di Jawaharial Nehru, che rimase al dicastero per 17 anni.
Dopo averne parlato per molti giorni sono arrivati i dazi imposti dalla nuova amministrazione Trump e subito sospesi per 3 mesi. L’India viene comunque colpita meno di altri paesi asiatici con una percentuale che dovrebbe essere del 26 per cento (anche se nell’Ordine Ufficiale viene riportato il 27 per cento).
«Il Primo ministro Modi e il presidente Trump hanno un solido rapporto personale e vogliono collaborare insieme per la reciproca crescita. Noi vogliamo evitare le reazioni isteriche che stiamo vedendo in giro: come ha detto il nostro ministro del Commercio, si tratta di un insieme di norme molto eterogeneo, ma non è una battuta d’arresto dei rapporti fra India e Stati Uniti. La successione mossa dell’amministrazione americana dimostra come tutte le opzioni restino ancora aperte. Il nostro governo sta già lavorando con tutte le parti interessate, tra cui l’industria e gli esportatori indiani, raccogliendo il feedback sulla loro valutazione delle tariffe e valutando la situazione. Non sottovalutiamo le opportunità che potrebbero sorgere grazie a questo nuovo sviluppo nella politica commerciale degli Stati Uniti. L’India e gli indiani conoscono bene il mondo degli affari».
L’economia indiana continua a crescere ogni anno del 5 per cento ampliando i suoi mercati. L’eventuale imposizione di questi dazi non andrà a rallentare l’economia globale?
«Gli Stati Uniti non hanno volutamente messo dazi al settore farmaceutico che vale un interscambio fra Washington e Nuova Delhi di circa 9 miliardi di dollari ogni anno e anche il settore automobilistico non subirà contraccolpi dato che aveva una tassazione già fissata al 25 per cento. Sono già in corso discussioni per trovare un accordo commerciale che sia vantaggioso per entrambi i nostri Paesi portando una tassazione reciproca a zero su tutto quello che riguarda l’elettronica. Il primo ministro Modi ha incontrato da poche settimane il presidente Trump e hanno rinnovato fiducia e amicizia per una crescita comune».
La rupia in un primo momento ha perso potere d’acquisto sul dollaro e se prima dei 90 giorni non troverete un accordo si rischia un crollo delle esportazioni di ingegneria che valgono 17 miliardi di dollari annuali.
«Abbiamo già calendarizzato una serie di incontri con le maggiori aziende nazionali che lavorano con gli Usa, ma si tratta di un problema globale che coinvolge molti Stati produttori del continente asiatico. La nostra moneta sta già risalendo nei cambi e la borsa di Mumbai ha reagito meglio rispetto a tutte le altre piazze asiatiche. A Tokyo e Hanoi le borse sono crollate e si registrano indici molto negativi anche a Hong Kong e Shenzhen».
In molti si chiedono se imporre dazi più bassi all’India non sia una manovra per rafforzare il vostro mercato manifatturiero nei confronti di Vietnam, Thailandia e Bangladesh, vostri diretti concorrenti e duramente colpiti.
«Non esistono piani segreti per danneggiare qualcuno e non conoscevamo l’entità dei dazi finché il presidente Trump non li ha pubblicamente dichiarati. Il manifatturiero è una colonna portante dell’economia indiana, ma veniamo comunque colpiti sull’esportazione di gemme, gioielli e materiale elettronico. India e Stati Uniti però si rispettano e vogliono continuare a collaborare. Nel suo ultimo incontro con il presidente statunitense il primo ministro Modi ha coniato un nuovo termine, “Make India Great Again” (Miga), ispirato al motto Maga di Trump, e ha affermato che le due visioni insieme formano la “Mega” e conferiscono una nuova dimensione alla partnership bilaterale».