Li chiamano “gatos”, gatti in portoghese. Dicono che arrivano dalla città, ti offrono un lavoro nelle piantagioni di caffè, una buona paga. Ti anticipano anche i soldi per le spese iniziali: cibo, alloggio, equipaggiamento per lavorare. Solo che poi diventi loro schiavo. Raccontano tutte questa storia, le otto persone brasiliane che hanno deciso di fare causa negli Stati Uniti a Starbucks per violazione della legge contro il traffico di essere umani. Un’accusa pesante, prevista dal Trafficking victims protection act (Tvpa), che s’inserisce nella guerra globale dei dazi scatenata dal presidente Donald Trump.
Il Brasile è stato l’ultimo Paese del mondo occidentale ad abolire la schiavitù. Era il 1888 e in Minas Gerais, da sempre lo Stato che produce più caffè, molti ex schiavi scapparono dalle fattorie e formarono delle comunità chiamate Quilombos. Esistono ancora. Molti anni dopo sono state riconosciute dalla Costituzione come comunità formate dai discendenti degli schiavi neri. Arrivano da un Quilombo vicino al villaggio di Berilo, nello Stato di Minas Gerais, le otto persone che hanno deciso di denunciare Starbucks facendo ricorso alla Tvpa. A seguire la causa è la International rights advocates, un’organizzazione no profit fondata e diretta da Terry Collingsworth, che ha depositato la denuncia il 24 aprile a Washington Dc, presso la Corte federale, e in quasi 90 pagine di esposto – che L’Espresso ha letto in anteprima – spiega perché Starbucks ha violato le leggi sulla tratta e sul lavoro forzato e adesso deve essere processata.
Avvocato con 35 anni di esperienza nei diritti umani, Collingsworth non è nuovo a questo tipo di cause. In questo momento se la sta già vedendo con Nestlé, Mars, Cargill, Hershey, Barry Callebaut, Olam e Mondelez: l’accusa in questo caso è di aver utilizzato lavoratori forzati nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio. «Il processo sul cacao è in fase d’appello, la discussione c’è stata il 20 novembre scorso, siamo in attesa della decisione», dice l’avvocato americano. Che ora non ha deciso di puntare solo su Starbucks. Oltre alla causa per violazione delle leggi sul traffico di essere umani, International rights advocates ha appena presentato, sempre il 24 aprile insieme alla Ong Coffee Watch, una petizione alla Us customs and borders protection per interrompere l’import di caffè brasiliano delle più grandi aziende al mondo. McDonalds, Nestlé, Dunkin Donuts, Ally Coffee, Jacobs Douwe Egberts, la solita Starbucks e l’italiana Illy. Sono tutte accusate di aver «comprato semi di caffè coltivato in Brasile “in toto o in parte” con lavoro forzato e di averlo esportato negli Stati Uniti».

Per capire cosa vuol dire nella pratica diventare un lavoratore forzato in una piantagione di caffè brasiliano bisogna leggere gli atti. Uno degli 8 cittadini che ha scelto di fare causa a Starbucks è minorenne. La sua storia inizia nell’aprile del 2024, quando ha 16 anni. Non va a scuola, la famiglia è povera, lui cerca lavoro e un giorno lo trova. Un “gato” lo convince a seguirlo in una piantagione di caffè nel Sud del Minas Gerais, dove aveva già lavorato per due stagioni. Si era trovato bene. Decide di andare di nuovo: finisce nelle fattorie di proprietà di Marcos Flório de Souza, membro della Cooxupé, una cooperativa che rifornisce direttamente Starbucks. Quando arrivano sul posto di lavoro, il gato diventa aggressivo. Lo fa svegliare alle 4 di mattina per preparare la colazione per tutti i lavoratori prima di andare sui campi. Se non lo fa, lo minaccia di diventare violento. Il ragazzo lavora 11-12 ore al giorno, per sette giorni di fila. L’ottavo arriva la polizia brasiliana. Salvano lui e altre 6 persone. Tempo dopo, il ministero del Lavoro stabilirà che quella piantagione era responsabile di aver costretto il ragazzo a lavorare in condizioni «di schiavitù».
È questo il tenore delle storie che le vittime hanno riassunto nell’esposto presentato a Washington. Persone in difficoltà, costrette a lavorare in condizioni disumane, sotto il peso dei debiti e delle minacce. Perché la condizione attraverso cui i padroncini tengono sotto scacco le loro vittime sono quasi sempre due. La paura di non lavorare più in alcuna piantagione della zona, se dovessero ribellarsi. E i soldi: quelli prestati alla vittima all’inizio del lavoro e quelli richiesti per comprarsi il cibo necessario a sfamarsi a fine giornata. Un debito che diventa presto insanabile. Quasi tutte le otto persone che hanno deciso di denunciare dicono di aver lavorato per la Cooxupé. Ed è questo il collegamento diretto con Starbucks.
Cooxupé è la più grande cooperativa del caffè al mondo e Starbucks ne è il principale cliente. La multinazionale fondata a Seattle acquista da Cooxupé il 40 per cento di tutto il caffè che compra in Brasile, primo produttore al mondo. Secondo Collingsworth, quello tra Cooxupé e Starbucks «è un rapporto simbiotico, entrambe beneficiano e sono pesantemente dipendenti dal successo reciproco, dai profitti crescenti ottenuti grazie al basso costo di lavoratori forzati e vittime di tratta», si legge nell’esposto contro Starbucks.

La petizione, invece, punta su tutti i grandi commercianti di caffè, non solo sulla multinazionale americana e ha invece un’impostazione diversa. I fatti denunciati sono di fondo gli stessi, ma qui l’obiettivo è finanziario: bloccare le importazioni americane del caffè coltivato in Brasile da McDonalds, Nestlé, Dunkin Donuts, Ally Coffee, Jacobs Douwe Egberts, Starbucks e Illy. Il grimaldello legale è nascosto in una legge di un secolo fa, che sembra la fotocopia del “Liberation Day” con cui lo scorso 2 aprile Donald Trump ha scatenato la guerra globale dei dazi. Era il 17 giugno del 1930 e la legge si chiamava United States tariff act. Nei tre anni precedenti gli Stati Uniti si erano impegnati a lasciare le briglie sciolte sulle imposte alle imprese straniere, ma alla fine il presidente Herbert Hoover cambiò idea. Con l’obiettivo ufficiale di proteggere gli agricoltori e gli industriali nazionali in difficoltà dopo i primi crolli borsistici del ’29, impose dazi del 20 per cento su oltre 20mila prodotti esteri. È finita come è noto, tristemente, ma in quella legge fatta per chiudere l’economia c’era una sezione, la 307, che è rimasta invariata: proibisce di fare entrare negli Usa prodotti che sono frutto di lavoro forzato. «Facendo leva sulla 307 in passato sono state bloccate importazioni di olio di palma e di canna da zucchero», ricorda Etelle Higonnet, avvocata e fondatrice della Ong Coffe watch.
La petizione cita testimonianze raccolte tra i lavoratori del caffè e molti rapporti delle stesse autorità federali brasiliane che denunciano condizioni di schiavismo riscontrate. «Prove schiaccianti che richiedono ora alla Us customs and borders protection di intraprendere azioni concrete», scrivono Coffe watch e International rights advocates. L’Agenzia federale americana dovrebbe ora avviare un’indagine interna e, sperano gli attivisti, passare all’azione. A una richiesta di commento sull’accusa generale di acquistare caffè raccolto da lavoratori forzati, Starbucks non ci ha risposto. Illycaffè ci ha scritto che «non acquista caffè proveniente da fornitori non conformi con la legislazione brasiliana sul lavoro forzato e inseriti nel Cadastro de Empregadores flagrado com mão de obra análoga à de escravo. Il 10 aprile 2025 è stato pubblicato l’ultimo aggiornamento della lista e non sono presenti produttori che vendono a Illycaffè». Nestlé ha ricordato che il gruppo si impegna a «promuovere condizioni di lavoro dignitose e a sostenere i diritti umani su tutta la nostra catena del valore lavorando attivamente per prevenire gli abusi», e che in caso di «accuse di non conformità rispetto ai nostri standard, collaboriamo attivamente con i nostri fornitori per indagare immediatamente il caso e intraprendere le azioni necessarie».