
Sebbene tutti questi fenomeni si radichino chiaramente in luoghi precisi, le politiche pubbliche continuano ad essere in gran parte cieche alle diversità territoriali del paese. Ed è proprio questo, oggi, il cuore della questione: il Recovery Fund saprà riconoscere questo scenario mutato o al contrario si avvierà - tra gli imperativi della rapidità e della “spendibilità” - su strade già note, verso il riconfezionamento di “progetti” settoriali e ormai vecchi, soprattutto fondati su comprensioni dei problemi altrettanto inattuali? Se la straordinaria spesa pubblica che ci accingiamo a gestire non coglierà questo scarto, corriamo il rischio non solo di non risolvere i problemi, ma addirittura di acutizzarli.
Con la conferenza “Ricomporre i divari: politiche e progetti territoriali contro le diseguaglianze” tenutasi al Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano lo scorso febbraio in collaborazione con il Forum Disuguaglianze e Diversità, amministratori, attivisti ed esperti hanno iniziato a lavorare a un insieme proposte che si propongono di superare questi limiti di impostazione. Proposte che intervengono sui temi della casa, del welfare materiale (le scuole, le reti dei servizi pubblici), degli spazi aperti e della mobilità e che sono state in parte anticipate nel documento “Liberiamo il potenziale di tutti i territori”, presentato assieme al ForumDD lo scorso 24 luglio.
Una prima serie tra queste proposte (che sarà consultabile in forma sintetica sulle pagine del FDD e del Programma di ricerca sulle Fragilità Territoriali del Dipartimento DAStU) parte proprio dal riconoscimento di alcuni dei principali ambiti del paese in cui si misurano le più gravi forme di disuguaglianza e di rischio ambientale: le periferie metropolitane “fragili”, i territori produttivi della terza Italia in crisi, le aree interne marginali, le aree di ricostruzione post-sisma, le coste minacciate dall’erosione, la pianura padana inquinata.
Delle periferie fragili delle aree metropolitane ancora non si parla abbastanza, e questo nonostante la crisi del Covid-19 abbia rivelato con il grande numero di richieste del “reddito di emergenza” le dimensioni del deposito di difficoltà sociali accumulatesi in questi anni di crisi. Per aggredire gli squilibri servono riforme profonde a partire dall’istituzione di veri governi metropolitani capaci di politiche efficaci in tema di regime dei suoli, abitare, mobilità urbana, cicli delle risorse. Si può iniziare da una politica nazionale non più episodica che abbia l’obiettivo da qui a un decennio di rigenerare non solo il patrimonio residenziale, ma anche le attrezzature collettive e gli spazi aperti localizzati nei quartieri - sia pubblici sia privati - delle aree metropolitane dove risiede il quinto più povero della popolazione italiana, creando buona occupazione in una nuova economia verde.
Durante la fase di confinamento si è poi registrato un ritorno di attenzione verso le aree interne marginali segnate dallo spopolamento, che sono state indicate da alcuni come opportunità per decongestionare alcuni nodi urbani del paese. Prospettiva interessante, ma va anzitutto riconosciuto che in questi territori è presente la gran parte del patrimonio ambientale italiano, e che un loro auspicato rilancio non potrà avvenire se non attraverso la rimessa al lavoro di questo capitale naturale. Da un lato riconoscendo i servizi ecosistemici che questo già svolge, quindi manutenendo boschi e sistemi di regimazione delle acque abbandonati; dall’altro riconnettendo la sua gestione attiva - che necessita in primis di una azione di ricomposizione fondiaria che superi la frammentazione delle proprietà - con sistemi produttivi sostenibili in ambiti quali edilizia, tessile, design, fitofarmaceutica. Costruendo e sostenendone un’adeguata domanda sia pubblica sia privata.
Esiste poi una terza Italia produttiva, di cui quasi non si parla, che in questi anni ha visto diminuire la sua capacità di ospitare economie qualificate e allo stesso tempo aggravarsi crisi ambientali e sociali. Territori distrettuali sviluppatisi repentinamente tra gli anni ‘70 e ‘90, che si ritrovano oggi congestionati e inquinati, poco capaci di offrire la qualità urbana e ambientale richiesta dagli addetti più qualificati che le medie imprese avanzate dovrebbero attrarre. Territori che non possono più soltanto “fare da sé”: per essi va messa a punto una strategia di re-infrastrutturazione mirata - non appiattita sulla miriade di strade, bretelle e autostrade immaginate trent’anni fa - a partire da progetti di alta formazione e specializzazione coerenti con il sistema produttivo locale, la qualificazione degli ambienti di vita e dei sistemi di mobilità, la riconversione ecologica delle filiere e degli spazi produttivi.
A questo è legata anche la grande questione nazionale dell’emergenza ambientale permanente nella quale vivono gli oltre 20 milioni di abitanti della Pianura Padana, una popolazione in larga parte fragile, come dimostrato dalla crisi del Covid-19. Qui ad essere necessaria è una strategia nazionale che veda il governo, le regioni e i comuni agire con decisione sulla riorganizzazione dei principali sistemi di mobilità di individui e merci, e sulla transizione ecologica della manifattura, dell’agricoltura e dell’allevamento più inquinante: una strategia che faccia un salto di scala, dagli interventi frammentati alla scala comunale ad azioni integrate di livello macro-regionale.
Abbiamo poi i territori delle ricostruzioni post-sisma. Sappiamo che le ricostruzioni post-sisma sono divenute nell’ultimo ventennio una posta finanziaria di grande rilievo e che hanno direttamente a che fare con i divari territoriali (pensiamo alla maggiore esposizione di territori interni e in via di spopolamento). Qui abbiamo bisogno prima di tutto di una legge nazionale che non solo superi i noti problemi di governance e di attuazione, ma che vada oltre la mera ricostruzione edilizia su base essenzialmente proprietaria. E che viceversa rilanci la capacità di pianificazione del territorio e di riorganizzazione degli insediamenti distrutti, aggredendo quanto più possibile sia la vulnerabilità e l’esposizione ai rischi sia i processi di declino e spopolamento di lungo periodo.
Infine, gli 8.000 chilometri di coste, di cui si è parlato di recente in occasione dell’ennesima proroga delle concessioni demaniali che perpetuerà un’inaccettabile limitazione dell’accesso collettivo al mare. Quello di cui invece non si è parlato, e di cui gli stessi interessi coinvolti non paiono essere consapevoli, sono i rischi già presenti legati al cambiamento climatico (l’innalzamento delle acque e l’intensificarsi di fenomeni quali l’erosione) e il moltiplicarsi di fenomeni di degrado in estesi tratti di urbanizzazione costiera, in molti casi abusivi, che stanno vedendo crollare i propri valori immobiliari. Anche questa crisi interroga la capacità dello stato di promuovere e coordinare un nuovo tipo di azione pubblica che prepari al cambiamento climatico e mitighi i rischi, affermi la natura collettiva del bene spiaggia e parli al ceto proprietario attraverso politiche adeguate alle criticità che investono il suo patrimonio.
Se non entrerà nelle contraddizioni di questo mutato scenario territoriale il Recovery Fund sarà un’occasione sprecata, se non peggio: la riproposizione di vecchie ricette che acutizzeranno i problemi. Ma siamo ancora in tempo.
*Politecnico di Milano, Dipartimento di architettura e studi urbani – Dipartimento di Eccellenza sulle fragilità territoriali 2018-2022