
È vero, la stazione di Rinkeby sembra un inferno: ha pareti dipinte di rosso e scavate nella roccia. Ma con la parola “inferno” lo svedese intende altro: isolamento, criminalità, disoccupazione, fanatismo religioso. Oggi in Svezia più del 15 per cento della popolazione è di origine straniera e quasi due milioni di persone vivono nei quartieri periferici delle grandi città. Il simbolo di tutto questo è Rinkeby, 16 mila abitanti, un caleidoscopio di 60 etnie dove si parlano 40 lingue e dove solo una persona su venti è di origini svedesi. Ci abitano somali (da qui il soprannome “Mogadiscio”) ma anche iracheni, siriani, etiopi, turchi, bosniaci, romeni, bangladeshi, latinoamericani.
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La Svezia è la nazione europea con il più alto numero pro capite di rifugiati politici: oltre 115 mila solo nel 2013. Una tradizione, quella dell’aiuto ai paesi sfortunati, che però negli ultimi tempi ha generato effetti inaspettati. Alle legislative del settembre 2014 il partito nazionalista Sverigedemokraterna (“Democratici Svedesi”) è arrivato terzo con il 12,9 per cento dei voti. Sintomo di malumore, in un paese da sempre egualitario ma dove negli ultimi anni (fonte Ocse) il divario fra i redditi è cresciuto più che in ogni altro paese Ue. «Se oggi la Svezia si scopre vagamente xenofoba», spiega Mia Päärni in un attimo di pausa del consiglio di distretto, «è anche perché i vari governi non si sono mai posti davvero la questione della loro integrazione». Mia, 37 anni, è vicepresidente del consiglio di Rinkeby-Kista e stasera presiede un’assemblea infuocata. Deve gestire domande a bruciapelo che arrivano dal pubblico, in gran parte formato proprio da stranieri. «Cosa state facendo contro l’abbandono scolastico?», chiede alzandosi in piedi l’assistente sociale Mohamed Hagi, arrivato qui dalla Somalia un quarto di secolo fa. «E contro la disoccupazione?».
Sì, Rinkeby è un ghetto. Ma un ghetto in stile Ikea, dove tutto apparentemente sembra funzionare alla perfezione. Ci sono giardini, campi da calcio, strade pulite, una scuola d’eccellenza e trasporti pubblici sempre in orario. Alla biblioteca pubblica si trovano il “Somali Times”, “Jeune Afrique” e “India Today” mentre al piano superiore un ufficio è incaricato di accogliere gli immigrati provenienti dal Corno d’Africa: molti sono passati dall’Italia. «Vedi quegli operai? Stanno allargando la strada e costruendo nuovi negozi», attacca Zeynep Unlu, 27 anni, nata a Konya come gran parte dei turchi di Rinkeby: «Pensa che due mesi fa ha perfino aperto la Lidl, un vero evento da queste parti». Zeynep gioca a basket nell’Akropol, l’unica squadra svedese di alto livello proveniente da una periferia difficile, con giocatrici che arrivano da ogni parte del mondo: «Ci chiamano “ghetto girls”, a volte le nostre avversarie hanno un po’ timore a venire a Rinkeby. Ma sbagliano: ci sono creatività ed energie nuove che si esprimono nell’arte, nella musica, nello sport».
Rinkeby e i vicini quartieri Tensta, Husby, Akulla sono sorti su un ex terreno militare dove alla metà degli anni Sessanta prese il via il “Million Program”: la grandiosa idea di combattere la carenza di case costruendo in dieci anni un milione di abitazioni. Erano palazzoni destinati al proletariato svedese ma piano piano ci finirono immigrati: prima greci e turchi, poi iracheni, somali, siriani. «Col tempo gli svedesi sono spariti», dice Gabriel Marawgeh, «ma anche gli stranieri di vecchia data ora se ne vanno. Io sono qui da 38 anni e mi sto spostando in un quartiere migliore». Il 51enne Gabriel è un avvocato siriano e alla fine della messa nella chiesa siro-ortodossa si ferma a chiacchierare: «Da queste parti nessuno ha case di proprietà. Qui si vive in affitto, 7 o 8 persone in due stanze con un solo bagno. Probabilmente fu un errore urbanistico pensare che i più poveri dovessero vivere ai margini».
Al negozio Asmara è appena arrivata da Addis Abeba “la injera”, la focaccia spugnosa tipica del Corno d’Africa. La scarica direttamente il titolare, Tesfay Fessah, 49 anni, che spiega: «Rinkeby è un ghetto perché ci hanno relegati qui, non trovi un altro posto dove ti concedono un affitto. Ci vivo da 25 anni e sai una cosa? Io parlo ancora pochissimo lo svedese».
Da anni i quartieri come Rinkeby hanno una pessima reputazione. Qui la povertà infantile tocca il 40 per cento contro il 3 degli altri distretti. La disoccupazione è molto più alta della media nazionale e sono in tanti a sopravvivere grazie al sussidio statale. «Amiamo Rinkeby», si legge in una letterina di un bambino, raccolta nel libro “Dear friends”, «ma di sera non andiamo mai nella piazza centrale. Ci sono uomini a volte ubriachi e alcuni di loro vendono droga, perfino ai bambini». Poi c’è il fanatismo religioso, che Samir Ahmed combatte quotidianamente: «Da qui», dice l’assistente sociale di origine eritrea, «sono partiti in dieci per andare con l’Is, oltre 250 da tutta la Svezia. Io spiego ogni giorno ai ragazzini il vero Islam, una religione di pace e di tolleranza. Per questo sono anch’io sotto tiro».
È difficile scrollarsi di dosso una brutta fama e alcuni danno la colpa ai media. «Per i giornali e le televisioni Rinkeby è il luogo dove prima o poi qualcosa di brutto accadrà», sostiene Tanja Appelberg, 28 anni, bibliotecaria di origini russe. Le fa eco Nino Monastra, fotografo italiano di 80 anni, che vive qui da 50: «L’hanno demonizzata, ma in realtà qui a Rinkeby di giornalisti se ne vedono pochi. Solo nelle rare occasioni di cronaca nera. Eppure succedono cose interessanti tutti i giorni».
Già, prendiamo il Nobel per la letteratura: è tradizione che dopo la premiazione, a Stoccolma, il vincitore venga a parlare ai ragazzi della Rinkebyskolan, 300 studenti fra i 14 e i 16 anni: «Hanno accolto Patrick Modiano salutandolo in 11 lingue diverse. Lui si è commosso», racconta Carina Rennermalm, direttrice della scuola, che per la sua presenza in un’area “difficile” riceve contributi extra dal governo locale. «Un terzo dei miei studenti è in Svezia da meno di due anni, e solo due hanno un genitore svedese. È davvero un “world village”, come lo chiamano loro. Però la nostra scuola ottiene ottimi risultati, e sa perché? Molti di loro sono motivati, sanno che per riuscire devono essere più bravi dei coetanei svedesi».
Ma che futuro c’è per i figli di Rinkeby? All’ultimo piano di un palazzo a vetri, tre volte a settimana Anne Pilgrim (metà ghanese, metà giamaicana) insegna svedese agli immigrati. Spiega che ci sono tante menti brillanti fra i suoi allievi, ma con poche possibilità di riuscire ad avere successo: «Il colore della pelle influisce, inutile negarlo. E qui a volte basta parlare lo svedese con un leggerissimo accento straniero per essere in un qualche modo discriminati».
Il calciatore Zlatan Ibrahimovic, che è nato in Svezia da padre bosniaco e madre croata, parlando del ghetto in cui è cresciuto una volta disse che «si può far uscire un ragazzo da Rosengård, ma non si può far uscire Rosengård da un ragazzo». Oggi, più che mai, questo vale anche per Rinkeby.