Una doppia mostra personale per due artisti bolognesi afrodiscendenti. Seguita dalla costruzione di due tucul che ospiteranno workshop artistici aperti a chiunque voglia cimentarsi nella creazione di opere d'arte ecologica, fatta con materiali riciclati e fondi di caffè. E per finire due grandi falò per far sì che dall'installazione collettiva custodita nei due tucul nasca una fiammata che produca cenere, cioè nutrimento prezioso per due alberi che saranno piantati in memoria di una cittadina del Trentino adottiva e indimenticabile: Agitu Ideo Gudeta.
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La ricorderete, Agitu: la pastora etiope trapiantata sui monti di Trento, dove allevava capre con metodi biologici in un'azienda che voleva essere anche un modello di integrazione e di recupero di terreni abbandonati. La favola di Agitu è finita male: un dipendente africano che la violenta e la uccide, la riscossa del maschilismo sui fragili progetti di una donna controcorrente. A un anno e mezzo dalla morte, qualcuno cerca di scrivere un nuovo finale per quella storia, un finale inclusivo, costruttivo, artistico. Con due “monumenti temporanei” che saranno insieme opera effimera ed esperienza indimenticabile. Succede grazie a Centrale Fies, centro di ricerca di arte e teatro ospitato da una delle più antiche e importanti centrali idroelettriche del Trentino e d'Italia.
Com'è nata l'idea di questo omaggio composito e coinvolgente ce lo racconta Barbara Boninsegna, direttrice artistica di Centrale Fies, che da qualche anno, per il Centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee, lavora a un incrocio tra arte, filosofia politica biodiversità, decolonizzazione e questioni di genere insieme a Mackda Ghebremariam Tesfau’ (dell'associazione “Il razzismo è una brutta storia”), Justin Randolph Thompson (Black History Month Florence) e Simone Frangi: «Il nome di Agitu è stato proposto da Mackda e da Simone, immaginando come la sua intuizione imprenditoriale incentrata su un’economia ecologica della montagna potesse risuonare in quell’idea di intreccio tra culture e discipline che anche la Free School of Performance della piattaforma Live Works pratica da tempo. Sapevamo che la scelta sarebbe stata scivolosa, volevamo titolare la fellowship all’imprenditrice dalle pratiche illuminate e non concorrere a trasformare in simbolo la persona di Agitu Ideo Gudeta».
Per evitare il rischio, è stato fondamentale coinvolgere la famiglia di Agitu: «Grazie al rapporto creato dalla curatrice esecutiva di Live Works Maria Chemello, che è stata ponte e connessione tra la famiglia e il centro di ricerca, Mackda e Simone hanno immaginato il modo migliore per dedicare ad Agitu una borsa di studio per giovani studentesse e studenti che conoscessero le difficoltà della discriminazione razziale. Le risposte sono state un successo: tanto che oltre al progetto risultato vincitore, quello dell’artista Silvia Rosi, abbiamo voluto produrre anche la proposta di Francis e Christian Offman, due artisti già affermati che avevano partecipato al concorso».
E così si è iniziato con la doppia mostra personale presso il Garage Lab di Trento dei fratelli Offman, ruandesi arrivati a Bologna nel 1991 e da qui partiti per una carriera artistica parallela che li ha visti esporre soprattutto in Germania. Seguirà, dal primo al 18 settembre, la costruzione dei tucul che fino al 24 ospiteranno i workshop aperti ad adulti e bambini per finire, il 24 e 25, con i festeggiamenti che culmineranno nel doppio falò. Tutto ciò tra il giardino dedicato ad Alexander Langer (l'attivista altoatesino che ha consacrato la sua vita alla difesa della possibilità di una convivenza inter-etnica) e il Parco di Melta di Gardolo (inserito in un contesto urbano popolare, eterogeneo e ospitale nei confronti delle comunità migranti).
«Uno dei più grandi problemi che i ragazzi Afro nati o cresciuti in Italia si trovano a dover affrontare, è la quasi totale mancanza di modelli di riferimento», racconta Christian Offman. «Agitu assieme a pochi altri rappresentava quel tipo di modello. L’idea del progetto è nata in modo molto spontaneo. Siamo partiti da una nostra conversazione registrata sul cellulare per strutturare il progetto, che poi in un secondo momento ho provveduto a mettere nero su bianco». Perché tante fasi diverse? «Permettono di avere il tempo di presentare l'iniziativa alla gente in modo non invasivo, per innescare un passaparola e un maggior stimolo per la comunità. Quello che ci interessava era vedere i posti che Agitu frequentava, le varie persone con cui aveva creato relazioni a Trento, le strade che percorreva. Volevamo lavorare sulla collettività, quindi il coinvolgimento della comunità locale esaressenziale ma volevamo arrivarci in maniera discreta, senza entrare a gamba tesa. Per come la vediamo, l’arte è un catalizzatore di persone, un momento dove incontrarsi e discutere, a maggior ragione in un periodo come questo dove la pandemia ha mostrato le varie falle del nostro sistema e dove i diritti vengono dati per scontati».
Ruanda ed Etiopia sono molto diversi, eppure, continua Christian, «la storia di Agitu era in qualche modo simile alla nostra. Lei era in Italia non per sua scelta ma perché era un’attivista che si era battuta contro il “land grabbing” nel suo Paese, da cui era dovuta fuggire per non essere rinchiusa o uccisa dal governo. In Italia era riuscita a portare avanti una pratica ecologica illuminata, creando l’azienda “La capra felice” e recuperando terreni in disuso».
L'aspetto ecologico dell'operazione lo spiega Francis: «Il rapporto fra le nostre opere e il progetto con i Tukul è evidente nella nostra ricerca artistica. I materiali che utilizziamo nelle opere ci vengono donati da persone che conosciamo. La stessa pratica l’abbiamo adottata per questo progetto. Ogni materiale che useremo per la costruzione è stato donato da persone di Trento: il legno per la struttura, i fondi di caffè e i vari tessuti. È un modo per invogliare le persone a sentirsi attive nel progetto eliminando la campana di vetro in cui spesso viene chiusa la creazione artistica».
Con una sfida in più, continua Francis, quella di coinvolgere anche persone lontane dall'arte: «Perché ogni volta che prepariamo un’opera, l'obiettivo a cui aspiriamo è che l’energia del nostro lavoro stimoli la curiosità anche del nostro vicino di casa, che si sveglia alle 5 del mattino per andare a lavorare».