I ricordi dell’infanzia in Ucraina. Gli impegni sul set e il sostegno ai connazionali travolti dalla guerra. Parla l’attrice in Italia dal ‘93: «Raccontiamo questo dramma con ogni mezzo»

«La primavera a Kiev è sempre stata una stagione di rinascita con la fioritura dei tulipani lungo le strade trafficate e gli ippocastani, che sono il simbolo della città. Le parate di maggio rappresentavano un giorno di festa per noi bambini e i lanciarazzi Katiuscia, che sfilavano insieme ai carri armati, nella nostra fantasia sembravano degli enormi e rassicuranti giocattoli».

 

I ricordi di Anna Safroncik, 41 anni, attrice ucraina dal 1993 in Italia, scorrono come un fiume in piena. Figlia d’arte, poliglotta, da sempre impegnata nel sociale, Anna si sente «ucraina, russa, italiana, cittadina del mondo», mentre parla al telefono da Londra, e pensa che, nel 2022, i confini territoriali siano un’assurdità. Fra una serie per la televisione e un set fotografico di moda l’attrice, che abita a Roma dove ha trovato l’amore («Sono stata a lungo single. Da poco ho incontrato Marco, un avvocato napoletano, estraneo al mio ambiente»), ha appena finito di girare un corto in Puglia, “L’estate di Virna”, per la regia di Alessandro Zizzo. Dal 5 all’8 maggio sarà la madrina del Festival Internazionale della Cinematografia Sociale Tulipani di Seta Nera che racconta attraverso documentari, clip musicali, serie digitali il concetto di diversità nelle sue molteplici sfaccettature: dalla disabilità al bullismo, dal razzismo alle disuguaglianze sociali.

 

Quando è andata a Kiev l’ultima volta?
«Due anni fa per il funerale del mio nonno materno, Gregory Chapkis, danzatore di fama internazionale. È sepolto nel cimitero principale della città. In quella occasione ho conosciuto il presidente Zelensky. Sono cresciuta in una famiglia di artisti: papà Ievgen è tenore, ha cantato nei teatri di mezza Europa e insegna al conservatorio. Ho imparato da lui a stare sul palcoscenico. Mamma Lilia, ballerina classica, ha studiato all’Accademia di Danza a Kiev ed era sempre in tournée. Per amore decise di stabilirsi ad Arezzo, dove ha poi aperto una scuola. È stata la prima città italiana dove ho vissuto».

 

Siamo tutti spettatori increduli di questa guerra: lei come si sta organizzando per aiutare la sua gente?
«Mio padre e la sua seconda moglie, Olga, contralto, sono scappati da me a Roma. Hanno lasciato tutto. Quando li chiamavo sentivo le sirene di sottofondo ed ero sgomenta. Si tengono in contatto quotidiano con amici e parenti attraverso chat e videochiamate. La nostra casa era in centro, vicino piazza Indipendenza (Majdan Nezaležnosti dal 1991, dopo la fine dell’Unione Sovietica, ndr). Nelle ultime settimane ho messo in piedi una squadra di persone e, con il sostegno di Linkem (operatore italiano nella banda larga senza allaccio alla rete fissa, ndr) stiamo lavorando in più direzioni: spedizione di medicinali e macchinari agli ospedali, di generi di prima necessità soprattutto nei piccoli centri, raccolta fondi. A breve sarà attiva anche una app per collegare le persone in cerca di ospitalità, per ora è disponibile il sito www.unitiperucraina.it».

 

Come artista le interessano le storie di chi è rimasto?
«Sicuramente. In questa tragedia vanno colti i piccoli e grandi momenti di felicità: per esempio, c’è stata una coppia che si è sposata in tuta, sotto le bombe. Gli amici più cari hanno regalato vino e salame. Nonostante la paura e le perdite, in Ucraina i giovani continuano a sposarsi, a fare figli, come in tempo di pace. Magari senza abito da cerimonia ma sempre con un mazzolino di fiori. Gli stessi che avrebbero addobbato le chiese bizantine dalle cupole dorate o le tavolate festose. Il bianco e il lilla sono i nostri colori. Ci aiutano ad avere fiducia nel futuro».

 

Quando le armi parlano le Muse tacciono, dicevano gli antichi romani. Oggi come può esserci di aiuto la cultura?
«L’essere umano non riesce a evolversi in tempo di guerra ma dobbiamo usare la cultura per crescere. Si stanno combattendo due popoli che erano amici. Il presidente Zelensky ha sempre tenuto i suoi discorsi in lingua russa e ucraina. Mi sono formata leggendo gli autori russi: il primo spettacolo in cui ho recitato a teatro, avevo cinque anni, era tratto dalla “Favola dello zar Saltan” di Puškin. Čajkovskij e Šostakovič sono tra i miei compositori preferiti. Esattamente come le poesie di Taras Ševčenko, simbolo dell’Ucraina. La scultura a lui dedicata nella città di Borodianka non si è salvata. La stessa sorte è toccata al teatro di Mariupol e alla biblioteca di Kharkiv. Vorrei cogliere l’occasione per fare un appello ai miei colleghi, registi, sceneggiatori affinché raccontino questo dramma. Con ogni mezzo».

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