Nel 1998 gli Usa seguirono lo scandalo sessuale tra la giovane stagista Lewinsky e il presidente come un Superbowl della politica. In un clima da stadio, presero corpo due dibattiti: quello sul ruolo dei media e quello nel mondo femminista. Sino alla resa dei conti al Congresso. Oggi, dopo 15 anni, il tema torna alla ribalta. Per rendere la vita impossibile a Hillary Clinton

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I fantasmi riappaiono sempre. Chi pensava che il voto del Senato americano del 12 febbraio 1999 avesse avuto l’effetto di vaporizzare Monica Lewinsky e il Sexgate di Bill Clinton, come l’attore Bill Murray fa nel film Ghostbusters distruggendo una intera famiglia di fantasmi, si è proprio sbagliato. Siamo al 2014 ed eccoli qui di nuovo tra noi Monica e il Sexgate, sedici anni dopo quel gennaio del 1998, quando la Washington politica prima, poi l’intero Paese, entrò in fibrillazione per il presidente più piacione degli Stati Uniti, Bill Clinton, che aveva avuto una relazione con Monica Lewinsky, una giovane stagista della Casa Bianca, molto attraente, molto grandi forme, molto intraprendente.

Quel voto di febbraio del 1999 - 55 contro 45 per affossare l’accusa di falsa dichiarazione sotto giuramento e 50 contro 50 per rendere nulla quella di ostruzione alla giustizia - fu dunque solo il tappo che rinchiuse i fantasmi in una bottiglia dalla quale prima o poi sarebbero riusciti. E così è accaduto, adesso che si avvicina il momento in cui Hillary Clinton, ex First lady, ex senatrice del Partito Democratico, ex Segretario di Stato con Barack Obama presidente, deve sciogliere la riserva se candidarsi alle primarie democratiche per le elezioni presidenziali del 2016. Il fantasma è uscito dalla bottiglia sotto le sembianze di Monica Lewinsky e sotto forma di un lungo articolo su “Vanity Fair” nel quale l’ex stagista ripercorre la sua vicenda: «Di sicuro il mio Boss si approfittò di me, ma io resterò sempre ferma su un punto: fu una relazione consensuale. Ogni “abuso” fu una conseguenza, quando io divenni il capro espiatorio per proteggere il suo ruolo di potere… L’amministrazione Clinton, i tirapiedi dello Special Prosecutor, i funzionari delle due parti politiche, e i media furono abili a marchiarmi a fuoco. E quel marchio mi è rimasto attaccato addosso, in parte perché era impregnato dal potere».
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Che notte quella notte del 20 gennaio 1998 a Cuba. Tutti i pezzi da novanta del giornalismo televisivo e scritto americano erano nell'isola caraibica per coprire la visita di Giovanni Paolo II. Ma nei loro discorsi e nei contatti con le redazioni di Wahington e di New York c'era poco Vaticano e molta Casa Bianca. Tutti avevano letto la notizia lanciata da Drudge Report, uno dei primi notiziari online della storia della Rete. In poche righe c'era tutta la storia che avrebbe segnato la presidenza di Bill Clinton: «All'ultimo minuto, alle 6 della sera di sabato scorso, Newsweek ha cancellato dalle sue pagine una storia che era destinata a scuotere la Washington politica dalle sue fondamenta: una stagista ha avuto una relazione sessuale con il Presidente degli Stati Uniti».

Nelle successive quattro righe di Drudge Report c'erano tutti i dettagli, tanto che nel corso della lunga indagine pochi altri particolari furono aggiunti, con la sola esclusione di come Bill Clinton e Monica Lewinsky facevano sesso: «Il reporter Michael Isikoff ha trovato e sviluppato la storia della sua carriera, solo per vederla poi bocciata dai capi di Newsweek poche ore prima della pubblicazione: una giovane donna di 23 anni, coinvolta sessualmente nell'amore della sua vita, il Presidente degli Stati Uniti, sin da quando stagista ventunenne era alla Casa Bianca. Lei ha frequentato un piccolo studio proprio accanto all'Ufficio Ovale dove sotiene di aver soddisfatto le preferenze sessuali del Presidente. Notizie della relazione si sono diffuse alla Casa Bianca e lei è stata trasferita al Pentagono dove ha lavorato sino al mese scorso». Infine l'avvertimento finale, un modo per dire, evitate di negare e fare smentite: «Drudge Report ha saputo che esistono registrazioni di conversazioni intime al telefono».

Con una bordata di quel tipo, bisognava aspettare solo chi avrebbe preso il posto della poco coraggiosa direzione di Newsweek e pubblicato la storia, anche perché Michael Isikoff era sì un reporter conservatore con il cuore vicino al Partito Repubblicano, ma non era uno sprovveduto e era dotato di buoni canali nella Washington della politica. La mattina del 21 gennaio fu il “Washington Post” a raccontare la storia e i volti noti e meno noti del circo dei media abbandonarono Cuba e il Papa per presentarsi la sera del 21 davanti ai cancelli della Casa Bianca cominciando la saga politico-giudiziaria del Sexgate.

Bill Clinton restò in silenzio fino al 26 gennaio. Quel giorno, al fianco la moglie e First Lady Hillary, il presidente disse ai giornalisti: «Voglio dire una cosa alla gente. Voglio che mi ascoltiate. E lo dirò ancora. Io non ho avuto una relazione sessuale con quella donna, Miss Levinsky. Io non ho mai chiesto a nessuno di mentire. Queste accuse sono false». Poi scadendo nella macchietta del leader che viene distratto da cose futili, inutili, per di più non vere chiuse con queste parole, girando sui tacchi e lasciando una valanga di domande senza risposta: «Adesso ho bisogno di tornare a lavorare per il popolo americano. Grazie». Pensava che quella frase avrebbe riportato l'opinione pubblica alla realtà di un'America la cui economia viaggiava a gonfie vele con un Pil che cresceva poco sotto il 4 per cento, la disoccupazione scendeva mese dopo mese ed era a liveli che gli economisti definiscono di piena occupazione, che la Borsa tirava con le aziende tech a spingere a tutta forza la locomotiva. E si era ben lontani dalla stagione delle guerre e del terrorismo.

Bill Clinton decise di negare tutto anche se erano saltate fuori foto di una adorante Monica in fila insieme agli altri stagisti che veniva abbracciata dal suo presidente per gli auguri di Natale. Fece bene o male a dire non ho mai avuto una relazione con la Lewinsky? In quei cinque giorni, tra il 21 e il 26, la Casa Bianca era stata investita da una tempesta politica e mediatica. Oltre alla storia dell'affaire tra la stagista e il presidente, erano arrivati siluri pericolosi: Bill e gli uomini a lui più vicini avevano cercato in ogni modo di bloccare la storia? Avevano convinto Monica Lewinsky a stare zitta promettendo posizioni di rilievo? Avevano costruito già da settimane una barriera di difesa alla posizione del capo?
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Quale che fosse in quel momento il livello di conoscenza di che cosa era successo tra l'Oval Office, il salottino accanto e le stanze della west wing della Casa Bianca, agli occhi del mondo non c'era solo e tanto la storia di Bill e Monica, ma la storia di Bill e le sue donne. Il presidente era da anni inseguito da una fama di donnaiolo impenitente, con Hillary al fianco che non si capiva se recitasse il ruolo della cornuta contenta e rassegnata, o della sorella più grande che cerca di tenere a bada un uomo già denominato "la lampo più veloce d'America", oppure avesse deciso per cinismo e puro interesse di potere di continuare a reggere bordone al marito perché mollare Casa Bianca e privilegi avrebbe distrutto in prima istanza lei e le sue ambizioni politiche e professionali.

Bill e le donne era davvero un capitolo chiave della vita del presidente, sin da quando era un uomo del sud che decise la via della politica e divenne governatore dell'Arkansas: fuori dalla porta a lamentarsi di Bill amante che non voleva riconoscere quello che aveva fatto erano in molte, alcune molto credibili, altre molto meno se non salite sul palcoscenico per esibizionismo o voglia di catturare un momento di notorietà, oltre a qualche dollaro: “Sweet” Connie Hamzy, una groupie dell'Arkansas che non si perdeva una band di passaggio a Little Rock, incluse le performance sessuali di qualcuno del gruppo, e che raccontava di sesso orale con il futuro presidente; Gennifer Flowers, cantante di night, uscita allo scoperto appena Clinton fu eletto presidente nel 1992, con la quale, alla fine, Clinton ammise di aver avuto una storia di sesso; Paula Jones, impiegata dello stato dell'Arkansas, che in una conferenza stampa organizzata nel 1994 da un gruppo della destra repubblicana accusò Clinton di averla molestata e che continuò per anni ad attaccare il presidente fino a quando non accettò 800 mila dollari di risarcimento. E poi una serie di donne, alcune credibili altre meno messe al centro della scena da un ex uomo della scorta di Clinton al tempo in cui era governatore dell'Arkansas.

Se questo era lo scenario di fondo e le comparse del Sexgate in quel gennaio del 1998, i protagonisti non furono solo Bill e Monica. C'era innanzitutto Hillary che non disse mai una parola e si presentava sempre accanto al presidente. C'erano gli uomini più vicini a Clinton, amici come l'avvocato Vernon Jordan, compagno di golf del presidente e indicato come colui che aveva cercato di mettere a tacere Monica, l'ambasciatore all'Onu Bill Richardson cui avevano chiesto di trovare un posto alla stagista a New York nel Palazzo di vetro, e Leon Panetta, allora capo di gabinetto, che giocò la parte di chi implorava il presidente di dire tutta la verità. E poi protagonisti di prima e seconda fila intorno a Monica.

La poco più che ventenne stagista si era presa una cotta per il maturo presidente? Quasi sicuramente. Ma cominciò a confessare le sue pene d'amore solo quando l'entourage presidenziale cominciò ad alzare un muro tra il presidente e la stagista rendendo complicate le visite nello studio accanto all'Oval Office e le sedute di sesso orale (gli incontri - nove - ci furono tra novembre 1995 e marzo 1997).
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Lo fece con Linda Tripp, impiegata alla Casa Bianca dai tempi del repubblicano George W. Bush, poi trasferita al Pentagono. E la Tripp si confidò con Lucienne Goldberg, una pasionaria repubblicana, ufficialmente agente editoriale, di fatto una militante politica spesso usata per controllare i giornalisti, la quale invitò l'amica a registrare le conversazioni con Monica. Cosa che la Tripp fece numerose volte, così come invitò una volta Monica a conservare in frigorifero una camicetta sulla quale erano rimaste le tracce di un incontro con il presidente.

Tutto questo non poteva che finire sul tavolo di Kenneth Starr, uno special prosecutor nominato per indagare su altre vicende presidenziali: il cosiddetto Whitewater, investimento immobiliare in Arkansas di amici dei Clinton, o quello che fu definito il Travelgate, ovvero il cambio di tutti gli addetti all'ufficio viaggi della Casa Bianca con l'arrivo dei Clinton, fino all'affaire tra Clinton e Paula Jones. Starr, la cui indagine costò oltre 70 milioni di dollari, portò il presidente davanti al Gran Giurì per una testimonianza che è passata alla storia in quanto in quell'occasione sostenne la tesi che lui non aveva mai commesso spergiuro dicendo che sì c'era stata una «relazione impropria» con la Lewinsky, ma non una relazione sessuale, in quanto il sesso orale non va considerato tale perché bisognava che lui toccasse lei e questo non era mai avvenuto. E davanti al Gran Giurì finì anche Monica che per raccontare la sua storia ottenne l'immunità.

L'America seguì per tutto il 1998 il Sexgate come fosse il Superbowl della politica, da una parte il Partito Repubblicano deciso a buttare giù dal trono Bill Clinton, dall'altro il presidente che accettò lo scontro fino alla testimonianza davanti al Gran Giurì e al prelievo di un campione di sangue per una prova di comparazione con il Dna prelevato dalla maglietta conservata in freezer dalla Lewinsky. In questo clima da stadio, presero corpo un paio di dibattiti: quello sul ruolo dei media che sembravano aver abbandonato la tipica divisione tra notizia e commento, scivolando troppo spesso nella commistione tra i due generi che finiva per non far capire lo sviluppo dell'inchiesta di Starr e presentava i servizi giornalistici come azioni di supporto a Clinton o di condanna predeterminata. O quello nel mondo femminista quando Camille Paglia puntò il dito contro le compagne di tante battaglie (Gloria Steinem, Geraldine Ferraro, Patricia Ireland) sostenendo che avevano piegato i loro ideali alla militanza nel Partito Democratico per difendere Clinton.

Arrivò il giorno della resa dei conti, quando i sondaggi sostenevano che la maggior parte degli americani non voleva la cacciata di Clinton dalla Casa Bianca, che desiderava la fine dell'inchiesta e che solo una minoranza vedeva con favore le dimissioni (19 per cento, rilevato a ottobre 1998) e l'impeachment (27 per cento).

Kenneth Starr depositò 445 pagine di indagine e di documenti accusando Clinton di due perjury (ovvero false dichiarazioni sotto giuramento), ostruzione alla giustizia e abuso di potere. L'intero dossier fu trasferito alla Judiciary Committee composto da 21 repubblicani e 17 democratici: a maggioranza decisero per avviare la procedura di impeachment davanti a un Congresso la cui maggioranza era dei repubblicani. Alla Camera dei rappresentanti toccò il primo voto e il risultato fu di mandare al Senato la proposta per un solo caso di perjury e per ostruzione della giustizia, un voto che si manifestò secondo appartenenza con poche defezioni da una parte e dall'altra a favore o contro Clinton. E il Senato, dove era necessaria la maggioranza di 67 voti per mettere alla porta il presidente, chiuse con un secondo voto strettamente a maggioranza dove 10 repubblicani votarono insieme ai 45 democratici per sostenere l'inesistenza del perjury e solo 5 quella di ostruzione.

I fantasmi di Monica Lewinsky erano stati chiusi in una bottiglia. Qualcuno tentò di riaprirla nel giro di pochi mesi portando in Congresso una mozione di censura nei confronti del presidente che non arrivò mai al voto. Adesso, dopo 15 anni, il tappo è saltato per mano di Monica Lewinsky e i fantasmi sono di nuovo liberi. Questa volta, però, più che Bill cercheranno di rendere la vita impossibile a Hillary Clinton.

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