Il giudice scrittore, partendo dal caso dell'omicidio di Yara Gambirasio, spiega perché nei processi le prove genetiche vanno sempre trattate con grande cautela. Ecco tutti i suoi dubbi
Gli investigatori coinvolti nell’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio lo ripetono da giorni: il Dna non risolve il caso. Non da solo. Precisazione giusta, ma dura da digerire. Negli ultimi anni stiamo assistendo alla creazione di un vero e proprio mito occidentale: il mito della prova scientifica. Alla scienza chiediamo una “certezza” che non sempre, o forse quasi mai, è di questo mondo. Ci rivolgiamo agli “esperti” con un atteggiamento fideistico che è il riflesso delle nostre grandi paure collettive, prima fra tutte l’inadeguatezza di fronte alla complessità del contemporaneo. Chiediamo loro una parola definitiva, rassicurante: è andata così, e non esistono alternative. Tutto ciò alimenta una mitologia tanto ricorrente quanto pericolosa. “Prova scientifica”, dopo tutto, era anche, a suo tempo, il judicium sanguinis: un sospetto veniva condotto al cospetto del cadavere della sua presunta vittima. Se quello sanguinava, ecco la prova scientifica della colpa. E quei giudici e quei bravi cittadini che accompagnavano il malcapitato al supplizio non erano molto diversi da noi uomini del XXI secolo: impauriti, ansiosi di certezze, soprattutto perfettamente convinti, in buona fede, delle proprie azioni. Le cose, purtroppo, non sono così semplici.
In una bella sentenza di qualche anno fa, la Cassazione descriveva brillantemente l’accidentato rapporto fra prova scientifica e giudizio, evidenziandone i punti critici: «la mancanza di cultura scientifica dei giudici; gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti; le negoziazioni informali o occulte tra i membri di una comunità scientifica; la complessità e la drammaticità di alcuni grandi eventi e la difficoltà di esaminare i fatti con uno sguardo neutro dal punto di vista dei valori; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche». Tutti temi che si ripropongono costantemente, e che rendono ogni certezza un po’ meno “certa”.
Il Dna, si diceva. Nella comunità scientifica il consenso intorno a questa prova è unanime: ogni individuo ha un suo proprio e personalissimo “codice”, una lunga sequenza che lo rende unico, differenziandolo da tutti i propri simili. Perciò l’impronta genetica identifica il suo portatore con approssimazione vicina allo zero. Ma - e qui cominciano i problemi - il processo penale vive di un complesso di fattori dei quali il Dna è soltanto uno degli elementi. Indubbiamente rilevante, ma non necessariamente decisivo.
Nei moderni sistemi, improntati a una sana diffidenza nei confronti della fase investigativa, le modalità di raccolta e analisi della prova, di qualunque prova, sono altrettanto importanti quanto la prova stessa. Prima di affermare che quell’impronta genetica appartiene con certezza a Mister X, occorre sapere come è stata raccolta ed escludere il rischio di contaminazioni accidentali. Per giunta, l’esito stesso dell’analisi non è, talvolta, esente da critiche. Un Dna abbondante e fresco offre maggiori garanzie di uno esiguo e risalente nel tempo. Una traccia esile, per dare risultati, va amplificata con reagenti di laboratorio, in qualche caso con effetti paradossali, come la scomparsa di tracce pure esistenti (tecnicamente definita “allele drop-out”) o la comparsa di tracce inesistenti (“allele drop-in”). E anche quando, superati tutti questi ostacoli, vi sia certezza che la traccia appartiene a Mister X, i problemi non sono finiti.
[[ge:espresso:attualita:1.172132:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2014/07/03/news/l-omicidio-di-yara-romanzo-nero-della-val-seriana-1.172132]]Solo in Csi e compagnia cantante il sudore, la saliva o il sangue sul corpetto della vittima sono sicuramente prova della colpevolezza. Nella realtà, l’impronta ci dice che Mister X è entrato in contatto con la vittima. Ma non ci spiega, almeno non ancora, né quando, né come, né perché. Sta all’accusa, secondo le regole processuali, provare, di là da ogni ragionevole dubbio, che l’impronta genetica è stata rilasciata mentre Mister X commetteva quel delitto. Problema non molto diverso da quello che si pone da anni per le impronte digitali, e i residui di polvere da sparo. Prova scientifica da maneggiare con cautela, insomma: al di fuori da ogni mitizzazione e con una particolare attenzione alle garanzie.
Il profiling, ad esempio, può sicuramente contribuire a identificare le caratteristiche dell’autore di un crimine violento, ma saggiamente il nostro codice se ne tiene alla larga: non puoi sostenere che Mister X è colpevole perché risponde a determinati requisiti mentali e comportamentali, devi prima dimostrare che Mister X è colpevole, e poi analizzarlo. Il procedimento inverso esporrebbe a un rischio inaudito di errore giudiziario. Analoghe problematiche suscitano le più recenti acquisizioni nel campo delle neuroscienze. Sofisticate analisi consentono di accertare che Mister X presenta, nel suo codice Dna, geni “sfavorenti” nella gestione dell’impulsività e dell’aggressività. In pratica, costui sarebbe predisposto più di altri alla schizofrenia (secondo alcuni) e, in generale, alla violenza.
Da questa “appendice geneticamente sfavorevole” potrebbe derivare, in ipotesi, l’impunità: commetto il delitto perché sono una sorta di natural born killer. La questione va ben oltre i limiti del processo penale, e investe temi di ampio spessore. Il libero arbitrio, per esempio. È possibile affermare che chiunque sia fornito di “appendice geneticamente sfavorevole” è predestinato al crimine? In che misura prendere in considerazione gli influssi sociali, ambientali, culturali? E se dovessimo accettare l’idea della predestinazione, che destino riservare a costoro? Li selezioniamo alla nascita e poi li togliamo di mezzo non perché colpevoli ma perché potrebbero diventarlo? È concreto il rischio di finire dalle parti di “Minority Report”. Nel suo inquietante racconto - da cui Steven Spielberg trasse un celebre film - lo scrittore americano Philip K. Dick immaginava un futuro in cui la prevenzione del crimine si attuava mandando per sempre in letargo i potenziali delinquenti. La base “scientifica” erano le premonizioni di creature dotate di poteri paranormali. Poi, a un certo punto, si scopre che per ogni delitto possibile c’è una variante imponderabile. Il rapporto di minoranza, appunto. Quello che ti dice: dovrebbe andare così, ma sino all’ultimo momento esiste la possibilità che il predestinato cambi idea e non ammazzi. Nient’altro che libero arbitrio.
Quando si affrontano questi temi con certi pasdaran della prova scientifica, si viene accusati di oscurantismo. Facile aggrapparsi a Philip K. Dick: ma lui faceva fantascienza, mica scienza con la “S” maiuscola. Il progresso è una zona no-limit, l’umanista che blatera di coscienza e ambiente un primitivo, il giudice un conservatore preoccupato unicamente di difendere il proprio primato castale. La questione non dev’essere così trascurabile se gli americani, con il loro consueto pragmatismo, da tempo hanno deciso di affrontarla di petto. Per le decisioni che prevedono il ricorso alla scienza, i giudici di quel Paese si ispirano ai cosiddetti “criteri Daubert”. Perché una prova scientifica sia considerata valida, occorre che risponda a determinati requisiti: l’accettazione da parte della comunità scientifica, la falsificabilità nel senso popperiano, ossia la possibilità di sottoporla a verifiche che inducano risultati difformi da quello originariamente perseguito; l’analisi della percentuale di errore, sul presupposto che non si possa mai parlare di “certezza assoluta” nel campo della prova scientifica; l’esistenza di pubblicazioni peer-reviewed, su stampa scientifica autorevole e la pertinenza al caso in esame. Tutto molto convincente, sul piano teorico. Ma in pratica?
Nel 2006 il Congresso degli Stati Uniti incaricò l’Accademia Nazionale delle Scienze (Nas) di condurre uno studio approfondito sullo stato delle cose. Il documento, intitolato “Rafforzare le scienze forensi: un passo avanti” venne reso pubblico tre anni dopo, ma non “adottato” dagli organi governativi. Se ne comprende la ragione: le sue conclusioni erano devastanti per la prova scientifica: «molte prove scientifiche - ad esempio: l’impronta del morso, l’identificazione delle armi da fuoco - sono introdotte nei processi penali senza alcuna significativa convalida scientifica, determinazione del margine di errore o attestazione sulla riproducibilità in modo da illustrare i limiti della disciplina. Ciò coinvolge direttamente la responsabilità del giudice come gatekeeper, custode della soglia, il guardiano incaricato di assicurare che la prova scientifica sia appropriatamente presentata ai tribunali».
Un monito impressionante: sono molto lontani i tempi in cui sir Bernard Spilsbury, medico legale della Corona, convinceva con la sua sola parola i giudici inglesi della colpevolezza o dell’innocenza del sospetto. Lo chiamavano “l’invincibile” perché, stesse dalla parte dell’accusa o della difesa, non perdeva mai un processo. Oggi sappiamo che le sue analisi erano troppo spesso spericolate, se non tecnicamente carenti. Spilsbury trionfava nelle aule di giustizia perché era un formidabile comunicatore. Ma la retorica, in un mondo migliore, non dovrebbe prevalere sulla verità.
E non è finita qui. A riprova della centralità del tema della prova scientifica, appena qualche mese fa, il Dipartimento della Giustizia statunitense ha insediato un “board” (questa volta ufficiale), incaricando i migliori scienziati di tracciare le “linee guida” per il corretto utilizzo investigativo e processuale della prova scientifica (con la significativa eceezione della normativa antiterrorismo). A presiedere il comitato il direttore dell’Ostp, un ufficio tecnico istituito negli anni Settanta che riferisce direttamente alla Casa Bianca sull’evoluzione interna e internazionale di scienza e tecnologia. La prova scientifica è, dunque, un affare di Stato. Un settore strategico il cui governo non può essere rimesso esclusivamente né alla comunità scientifica né all’autorità giudiziaria. Anche se al giudice spetta pur sempre l’ultima parola, ad essa si dovrà pervenire tenendo conto di tutte le possibili varianti in gioco. Varianti che, quando c’è di mezzo il destino di un essere umano, è assolutamente doveroso considerare con il massimo scrupolo