Enrico Loccioni, l'imprenditore partito dal nulla 'Ora vi dirò cosa accadrà nel 2068'
Marchigiano, nato contadino, produce sistemi di controllo per impianti industriali. E ha successo in tutto il mondo. Perché, ci spiega, prova ad immaginare oggi come sarà il domani
Sembra una storia studiata apposta per alimentare il mito del self-made man, partito dal nulla e capace di affermarsi sui mercati di tutto il mondo. A differenza di tanti colleghi più rampanti, Enrico Loccioni, 64 anni d’età, fondatore di un gruppo che opera nel super-sofisticato settore dei sistemi automatici di misura della qualità dei prodotti e dei processi industriali, non ha infatti nessuna paura del passato da ragazzo cresciuto in una famiglia contadina delle Marche. Anzi.
Oggi che lavora con le principali multinazionali italiane e globali, da Ferrero a Samsung, da Eni a Volkswagen, dice di voler tenere i piedi ben piantati in quella civiltà della mezzadria tipica delle sue campagne, dove chi sgobbava tutto il giorno lo faceva senza perdere di vista i bisogni della comunità. Parlando della sua azienda, 260 dipendenti fra i quali molti giovani tecnici e ingegneri, Loccioni ricorda di quando aveva quindici anni e andava al pozzo a prendere l’acqua per le mucche, incombenza di cui si liberò con il suo primo progetto di automazione.
Ci ha stampato persino una brochure, di quelle che le imprese distribuiscono ai clienti per spiegare cosa fanno: un giorno prese una pompa, qualche tubo e, grazie all’elettricità appena arrivata nelle campagne, corse dagli altri contadini a spiegar loro come cambiare il modo di lavorare. Cinque anni dopo, era il 1968, e già aveva coronato il primo sogno: un’azienda di impiantistica elettrica.
Adesso che è passato quasi mezzo secolo, una sua foto campeggia nella sezione Monditalia della Biennale di Venezia, che lo ha indicato come modello di una nuova cultura d’impresa. Per spiegare perché i curatori della mostra abbiano puntato su di lui, un imprenditore sconosciuto ai più, con un giro d’affari non enorme (65 milioni di euro), sede ad Angeli di Rosora, nei colli della provincia anconetana, e un’attività difficile da spiegare ai non addetti ai lavori - i suoi sistemi intervengono nelle linee produttive delle aziende, ad esempio, per misurare in modo automatico le prestazioni dei macchinari, rilevare la regolarità delle emissioni di fumi nell’ambiente o di scarichi nell’acqua, ottimizzare i consumi di energia - Loccioni parte ancora dall’inizio.
Racconta di quando girava su e giù per le Marche a bordo di un’Ape Piaggio e poi, la sera, ficcava la testa nei libri. Studiava da autodidatta la vita di Werner Von Siemens, fondatore del gigante elettrotecnico tedesco, si faceva stregare dalle utopie industriali e dalle idee di promozione sociale e culturale di personaggi molto lontani dal suo mondo, come Camillo e Adriano Olivetti. Ancora oggi che lavora con i dirigenti di quei gruppi industriali che danno alla sua azienda l’incarico di studiare nuovi sistemi e processi produttivi, se gli si chiede di indicare i principi del suo lavoro, snocciola quanto ha imparato allora: «Per me i valori sono la trasparenza, la capacità di dare il buon esempio, di instaurare rapporti di fiducia con i collaboratori, i clienti, la comunità locale», dice. Come capita a volte a chi si è fatto da solo, dà quasi l’impressione di una frenesia di apprendere, di non smettere mai d’imparare. Ha creato un “Identity Lab”, un’area multidisciplinare che ha ingaggiato persino un filosofo - l’università di Macerata lo ha spedito al Loccioni Group per un dottorato - incaricandolo di immaginare, insieme ad architetti, designer, ingegneri ed esperti di comunicazione, l’impresa che verrà. Indicando obiettivi temporali molto lontani nel tempo, per esempio nel 2068, oppure nel 2100.
Roba da caso scuola sullo sviluppo dell’economia della conoscenza, tanto vagheggiata dall’Unione europea. Qui, nel quartier generale di Rosora, i tecnici lavorano allo sviluppo di sistemi studiati ad hoc per i clienti, in genere colossi che operano nel settore automobilistico, degli elettrodomestici, nell’industria alimentare, nell’elettronica, nell’energia. L’auto, o meglio gli stabilimenti delle case automobilistiche dedicati alla produzione dei motori, e in particolare di quelli alimentati a diesel, sono dei business più importanti. Loccioni realizza dei sistemi per il controllo della qualità di una serie di componenti cruciali, come ad esempio gli iniettori del carburante. Nell’ultimo anno, poi, ha dato particolare sviluppo a un settore che viene definito “autronica”, ovvero lo studio e l’installazione di soluzioni e componenti per i motori elettrici.
Anche in casi come questi, i clienti sono fornitori di stazza mondiale, da Magneti Marelli a Denso, ma anche direttamente case automobilistiche come Daimler-Mercedes, General Motors e Volkswagen. Le commesse che vengono assegnate dai clienti sono sempre su misura e possono essere molto specifiche. Il bilancio del gruppo cita, ad esempio, il fatto che nel 2013 sono state commercializzate «le prime soluzioni di assemblaggio e testing per valvole e sensori di pressione nei settori automobilistico e alimentare». E ancora: negli anni passati i vertici delle Ferrovie dello Stato si sono presentati da Loccioni per domandare una macchina capace di misurare in modo automatico le condizioni di sicurezza e efficienza degli scambi ferroviari.
Ne è venuto fuori il robot Felix, un’altra innovazione che ora l’azienda marchigiana conta di vendere anche all’estero, dove già oggi realizza gran parte del proprio fatturato. A volte, però, l’iniziativa per lo studio di un nuovo prodotto parte dall’interno, com’è avvenuto per lo sviluppo di un modello di laboratorio automatizzato per preparare e dosare farmaci chemioterapici (vedi articolo nella pagina a fianco), che ha fatto esordire il gruppo nel settore delle apparecchiature per l’industria farmaceutica. «Ma quale genio», si schermisce Loccioni, «da solo non avrei realizzato niente. Il successo è dato dalla combinazione tra persone che la pensano diversamente. Le differenze sono un valore». Quando parla, l’imprenditore mescola citazioni e cedimenti al dialetto. Riporta costantemente ai meriti del gruppo di lavoro, piuttosto che ai suoi. «Qui non ci sono dipendenti ma collaboratori. Non c’è un’azienda ma un’impresa. Non ci sono padroni e non ci sono sottoposti. Viviamo di tecnologia e la base scientifica è importante. Ma lo è altrettanto il contributo che può arrivare al di fuori delle specializzazioni». Forse è per questo che, pensando allo sviluppo della sua ditta, ha già messo in cantiere il reclutamento di uno psicoanalista. Nulla di cui stupirsi. È un’illuminazione, o chissà una piccola follia, in linea con la sua idea di imprenditore che ascolta tutti, raccoglie opinioni, stimola il lavoro di squadra e la crescita dell’autostima del personale.
Per esempio: ha raccolto in un volume, “Aforismi di cultura d’impresa”, le riflessioni dei dipendenti, dopo averli invitati a leggere “Il quinto Stato” di Angelo Pasquarella sui “knowledge workers”, gli operatori della conoscenza. Ha realizzato un cofanetto di libri dedicati alla “figura dell’imprenditore vero” da donare a clienti e amici, sempre in bilico tra la civiltà contadina, dalla quale sostiene di aver appreso la lezione della diversificazione dell’attività per ridurre il rischio imprenditoriale, e una idea tutta sua della missione di un’azienda. Fa tutto in famiglia, con la moglie Gabriella, che si occupa della parte finanziaria, il figlio Claudio e la figlia Maria Cristina, diventata presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria Ancona, che avrebbe voluto occuparsi di moda ma poi, dopo aver girato il mondo, ha scelto di tornare in azienda. Lui sembra fatto apposta per cancellare stereotipi. Non parla una parola d’inglese ma ha creato un colosso che opera in 45 Paesi. Sa quanto vale l’investimento in ricerca e sviluppo: ha messo al lavoro 60 persone, ogni anno blinda per l’innovazione almeno il 5 per cento del volume d’affari, non un euro in meno. La testa è sempre proiettata verso il futuro, all’ambizione di lasciare un segno: «Voglio creare una realtà che vada oltre la mia persona», spiega.
Nella progettazione non può fare a meno di confrontarsi con i collaboratori. Un aneddoto: quando ultimò la villa dove vive, comprò dieci prosciutti e cominciò a chiamare i dipendenti. A turno, in gruppi, lo raggiungevano a casa. Lui affettava, metteva in tavola e chiedeva consigli, suggerimenti, proposte. Pratica mai abbandonata, in realtà. Adesso le intuizioni che arrivano dai suoi collaboratori campeggiano su fogli appesi alle pareti dello stabilimento, un susseguirsi di spazi comuni per il lavoro e di ampie scrivanie, che con l’intento di favorire lo spirito di gruppo ospitano fino a dieci o dodici persone. All’esterno, alle spalle della sede, scorre il fiume Esino, che è l’ultima sfida. L’11 luglio scorso, insieme a Nissan, Samsung, Enel e altri partner, ha presentato alla popolazione della valle il risultato di un investimento da un paio di milioni di euro per rimettere in sicurezza due chilometri di argine, archiviare il timore di esondazioni, realizzare una spiaggia attrezzata per gli abitanti di Rosora e, soprattutto, quattro piccole centrali idroelettriche che producono energia per gli uffici.
«Ma non dovevo solo risolvere un problema energetico, traggo anche il beneficio di restituire bellezza a tutto il territorio», sostiene. Tra i dipendenti c’è chi dice che il suo vero obiettivo è quello di realizzare la prima smart city della vallata, dimostrando che è possibile mettere in equilibrio uomini e ambiente. Idea mutuata dalle sue origini, dai saperi di una cultura rurale che della natura conosce entrambe le facce, quella dei cataclismi ma anche quella dei vantaggi che offre. L’intervento sul fiume lo ha chiamato “Due chilometri di futuro”. Altro punto d’orgoglio: negli anni ha spinto molti dipendenti a diventare “intraprenditori”, uno dei tanti neologismi del lessico aziendale. È così che è nata un’ottantina di spin off, di cui parla gonfiando il petto, come un padre orgoglioso. Il direttore del personale? Anche quella, per lui, è preistoria. Dice: «Abbiamo creato un gruppo di lavoro che si riunisce regolarmente per parlare delle persone, per capire come valorizzarle».