Nuove reclute e forze speciali hanno ripreso ad esercitarsi per il prossimo inevitabile conflitto con Israele. Mentre la popolazione soffre la fame e non arrivano i soldi promessi per la ricostruzione. Rapporto dalla Striscia
Said ha gli occhi bassi, dà un’ultima occhiata all’anellino della moglie sul palmo della sua mano e poi lo porge all’orafo, Samir, che nel suo bugigattolo-laboratorio lo pesa mentre ricontrolla la quotazione odierna del metallo giallo. «Questo è l’ultimo», sospira Said, 29 anni, originario di Tuffah, un quartiere di Gaza City, «non ci rimane più niente, non so cosa potremo venderci il prossimo mese».
Il sole batte forte sul piccolo mercato dell’oro nella città vecchia di Gaza, nella via dedicata a Omar Al Mukhtar, il castigatore libico di Mussolini, e scene come questa si ripetono ormai da diversi mesi. Dalla fine dell’ultima offensiva israeliana che ha lasciato sul terreno oltre 2100 morti (1500 civili, tra cui 500 bambini) e arrecato una distruzione senza precedenti nella Striscia dominata dalla fazione islamista di Hamas. «Dopo ogni guerra con Israele la gente è sempre venuta a vendere un po’ di gioielli per far fronte alle prime necessità», racconta Samir Ghabel, che da 35 anni fa l’orafo nel piccolo mercato, «ma questa volta è diverso: giovani coppie, anziani e anche persone benestanti si stanno vendendo tutto. Pochi giorni fa si è presentata un’anziana cristiana, si è infilata una mano in bocca e mi ha chiesto il valore di uno dei suoi molari in oro».
[[ge:rep-locali:espresso:285150824]] LA GENTE HA FAME Non che non ci sia cibo, non ci sono i soldi per comprarlo. Il tasso di disoccupazione ha superato il 40 per cento e i dipendenti pubblici del governo di Hamas (40 mila persone circa) non ricevono il salario da cinque mesi. Moltissimi i ragazzini che vendono sigarette o chiedono direttamente l’elemosina. Il numero di furti e di episodi di taccheggio è in vertiginosa ascesa. Si ruba di tutto: dalle sedie in plastica ai vestiti, fino agli pneumatici delle macchine. Chi conosce la Striscia, sa che fenomeni di questo tipo non sono usuali.
La devastazione dell’estate scorsa è ancora visibile ovunque. Quartieri come Khuza’a, Beit Hanoun, Shujayya, sembrano ground zero. Le infrastrutture pubbliche (scuole, ospedali e ministeri) danneggiate pesantemente, alcune irrimediabilmente, decine di migliaia i senzatetto e un alto livello di disperazione tra la popolazione. Guidando per le strade è possibile vedere qualche tecnico del governo riconnettere cavi telefonici e tubi dell’acqua e riparare strade. Tutto si muove a rilento. Secondo l’organizzazione britannica Oxfam, se la ricostruzione dovesse procedere di questo passo «ci vorranno più di cento anni per il ritorno alla normalità».
Dopo la chiusura dell’unica centrale elettrica di Gaza, dovuta al congelamento delle tasse palestinesi da parte di Israele, l’elettricità è stata ulteriormente razionata, e chi non possiede un generatore si deve accontentare di poche ore di corrente al giorno. La carenza di materiali edili che dovrebbero entrare da Israele impedisce alla popolazione di ripartire. «Dal mio punto di vista la distruzione provocata dalla guerra dell’estate scorsa è paragonabile a quelle del 2008/9 e del 2012 combinate insieme», dice a “l’Espresso” Scott Anderson, vicedirettore dell’Unrwa l’agenzia Onu per i rifugiati. «Più di 120 mila abitazioni sono state danneggiate. Oltre 7 mila sono state completamente distrutte». Al momento l’Unrwa paga l’affitto a circa 11 mila famiglie senza tetto in palazzine nel centro di Gaza, il che permette a più di 65 mila persone di non dormire all’addiaccio o nelle baracche allestite dai rifugiati dove una volta sorgevano le loro abitazioni.
IL GENERALE “NEMICO” Anderson, che tra poche settimane lascerà il suo incarico, dopo sette anni trascorsi a Gaza, punta il dito verso la comunità internazionale e sulle donazioni (5,4 miliardi di dollari) promesse (ma non ancora arrivate) durante la conferenza del Cairo dell’ottobre scorso. «Se non fosse per le singole donazioni di Germania, Giappone e Qatar (175 milioni di dollari), non avremmo nemmeno potuto dare rifugio alle decine di migliaia di senza tetto» spiega. «Per mettere in sicurezza le abitazioni ci servirebbero altri 500 milioni, ma non arriveranno, non c’è la volontà politica. Il più grosso problema che abbiamo in questo momento è quello di gestire le aspettative della popolazione: non si possono fare annunci riguardo la ricostruzione e poi non mantenerli».
Nell’impasse che coinvolge Autorità palestinese, Hamas, comunità internazionale e Israele, l’unico elemento che fa ben sperare Anderson è la recente nomina a capo del Cogat (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori) del generale israeliano Yoav Mordechai, personaggio convinto che migliori condizioni di vita nella Striscia siano il primo tassello per assicurare la sicurezza di Israele: più lavoro e benessere e meno volontà di unirsi alle fazioni armate. «Se questa situazione dovesse continuare»; conclude Anderson, «il rischio implosione è assicurato. Non so cosa potrebbe succedere: una rivolta contro l’attuale governo o un’altra escalation militare con Israele sono entrambe eventualità possibili».
La primavera è arrivata improvvisamente anche a Gaza e il grigio dei detriti fa da macabra cornice al verde dei prati e al giallo dei fiori di campo. Sulla montagna di macerie creata dalla pulizia delle rovine di Khuza’a, uno dei villaggi nel sud-est della Striscia, Handan al-Najjar scruta l’orizzonte e punta il dito verso la linea di confine con Israele. «Li vedi quei fiori laggiù? Proprio là c’erano più di 500 alberi di ulivo e un centinaio di aranci e alberi di limoni, tutto polverizzato quando gli israeliani sono entrati con i carri armati». L’azienda agricola di Handan dava lavoro a più di 50 persone e oltre a coltivare olive e agrumi il contadino palestinese allevava ovini e polli. «Ho 55 anni, non mi è rimasto più niente, è la terza volta che riparto da zero e non credo di farcela». Sono centinaia gli agricoltori nella sua situazione. Metà della sua famiglia vive stipata in due container forniti dal Qatar, gli altri vivono in affitto in un piccolo appartamento grazie al supporto dell’Unrwa. «Con i miei due figli più grandi estraiamo le armature in ferro dalle rovine e le rivendiamo ad una compagnia locale che ce li paga 150 shekels al quintale (35 euro). Un lavoraccio, ma è l’unica entrata che abbiamo».
PESCATORI SENZA MARE I pescatori palestinesi che ritornano dal piccolo lembo di mare in cui gli è concesso gettare le reti arrivano al porto di Gaza coi volti lividi e bruciacchiati dal sole. L’ampliamento della zona di pesca a sei miglia marine, parte integrante dell’accordo della tregua con Israele, è una promessa disattesa. Chi esce dalle tre miglia rischia di essere arrestato, o peggio, di finire ammazzato dal fuoco dei cacciatorpedinieri israeliani, come successo recentemente a Tawfik Abu-Ryaleh, 25 anni, reo di essersi spinto, con la sua piccola imbarcazione in legno, oltre il limite consentito. Per i pescatori di Gaza spingersi al largo è una necessità. Il sistema di depurazione delle fogne della Striscia è quasi inesistente e i liquami di 1 milione e 700 mila abitanti vengono scaricati a poca distanza dalla riva. «Spesso non riusciamo a coprire il costo carburante che consumiamo durante la giornata», spiega Mohammed Al Hissi, «perciò dobbiamo spingerci al largo per pescare di più. Faccio il pescatore da trent’anni e non voglio prendere nessun sussidio. Ma questo è il mio mare e voglio essere libero di pescare dove mi pare».
Il colpo inferto all’economia di Gaza dall’offensiva di terra israeliana è senza precedenti. Secondo Hatem Owida, il vice ministro dell’economia del governo di Hamas, a causa della guerra si sono persi quasi 130 mila posti di lavoro, che nei prossimi mesi potrebbero raggiungere le 180 mila unità, facendo balzare il tasso di disoccupazione della Striscia oltre il 50 per cento. «Il prodotto interno lordo è diminuito del trenta per cento negli ultimi sei mesi, il settore industriale ha incominciato a ripartire, ma senza i materiali che dovrebbero entrare da Israele, gli imprenditori preferiscono aspettare che la situazione si stabilizzi per fare nuovi investimenti». Sono lontani i tempi in cui, grazie alla fitta rete di tunnel con l’Egitto, un fiume costante di materiali, cibo e prodotti di ogni genere (armi comprese) inondava la Striscia. «I tunnel», sostiene Owida, «sono stati distrutti e siamo costretti ad acquistare solo prodotti provenienti da Israele». Il governo di Hamas ha ricevuto circa 200 milioni di dollari per la ricostruzione da Qatar e Kuwait, «ma la gestione dei fondi deve essere coordinata con Ramallah (sede dell’Anp, ndr.)», spiega il vice ministro. Il quale tiene a sottolineare che da parte delle autorità di Gaza c’è la più completa disponibilità a collaborare con il governo di Rami Hamdallah: «Ho ottimi rapporti col ministro dell’economia Mohammed Moustafà e non riesco a capire perché dopo sei mesi dalla fine della guerra sia così difficile avere un serio coordinamento con l’Anp».
IL COMMANDO DEGLI UOMINI RANA Nonostante la creazione di un governo di unità nazionale tra i laici di Fatah (che dominano l’Anp) e gli islamici di Hamas, le due fazioni sono ai ferri corti da mesi. La cancellazione, nel novembre scorso, delle celebrazioni per l’anniversario della morte di Yasser Arafat a Gaza, a causa di una serie di attentati dinamitardi verso gli esponenti di Fatah, e un’impressionante serie di arresti da parte delle forze palestinesi di affiliati di Hamas in Cisgiordania, non sembrano far ben sperare per una definitiva riunificazione politica palestinese e soprattutto per una gestione efficace della crisi umanitaria a Gaza.
Hamas intanto serra le fila. Nel sud, verso Khan Yunis, è già possibile vedere le nuove strutture che gli islamici utilizzano come punti di osservazione a ridosso della buffer zone, la zona cuscinetto tra la Striscia e Israele.
L’ala militare di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, ha recentemente fatto sapere di aver già iniziato la ricostruzione della maggior parte dei centri di addestramento e delle principali basi, compresa “al-Yarmouk” situata a est del quartiere di Shujayya e quella chiamata “Phalestin” nel nord della Striscia. Anche il famigerato commando degli “uomini rana”, capace questa estate di infiltrarsi via mare tra le linee israeliane, sarebbe già tornato operativo, e sul lungomare di Gaza, all’alba, è possibile vedere le esercitazioni delle nuove reclute in stile Marines. «Come al solito dopo una guerra, Hamas deve mostrare i muscoli, far vedere alle altre fazioni, alla maggior parte della popolazione non allineata e soprattutto a Israele, che ha ancora il controllo», spiega Jehad Saftawi, giornalista dell’ Imeu (Institute for Middle Est Understanding) e una delle giovani voci libere di Gaza. In città i checkpoints volanti sono raddoppiati, un semi-ufficiale coprifuoco è in vigore a partire dalle 21, dopo le quali, nelle strade completamente buie, si vedono balenare solo le luci delle torce della polizia o le insegne di qualche caffè alla moda della borghesia.
All’uscita di Gaza, verso il valico di Erez, tra i due checkpoints palestinesi, quello di Hamsa/Hamsa (5/5), sotto controllo di Hamas e quello di Harba Harba (4/4), sotto l’Anp, le attività sono febbrili. Una ventina di membri incappucciati delle brigate Qassam pattugliano minacciosamente l’area, altri sono impegnati in addestramenti a poco più di un chilometro dalle postazioni israeliane. I vessilli rossi del Fronte Popolare e quelli verdi di Hamas sventolano ai bordi dei crateri creati dai bombardamenti israeliani e dai colpi di mortaio palestinesi. «Certo che ci sarà presto un’altra guerra», dice convinto Rami, tassinaro di Beit Lakhia, mentre scarica le valige dal baule. Non sembra esserci pace all’orizzonte per la Striscia. E i suoi abitanti ne sono consapevoli.