
Adesso ne sappiamo molto di più. La sonda New Horizons della Nasa, lanciata nel gennaio 2006, è arrivata a Plutone e comincia a mandare foto affascinanti. Il 2006 era un anno perfetto per andare a Plutone: un’occasione rarissima, che si ripete solo ogni due secoli, di allineamento tra Terra, Giove e Plutone stesso. Anche gli spietati tagliatori di finanziamenti alla Nasa si erano arresi, e la missione New Horizons partì, alla scoperta, letteralmente, dell’ultimo “pianeta” del sistema solare molto al di là di Nettuno, che è l’ultimo dei giganti gassosi. Certo, pochi mesi dopo - nell’agosto dell’assemblea a Praga - la Nasa ci rimase un po’ male del declassamento di Plutone, che resta comunque un posto misterioso e importante da studiare.
Il nome Pluto (in latino e inglese, ma Plutone in italiano) fu proposto, subito dopo la sua scoperta nel 1930, da una dotta bambina inglese di 11 anni, Venetia Burney, nipote del dottissimo bibliotecario della Bodleiana di Oxford. Non, come io ingenuamente pensavo, per via di Topolino e del suo cane (che peraltro a ben pensarci allora non esisteva ancora), ma dal nome del dio degli inferi. La proposta fu mandata negli Usa all’astronomo scopritore del pianeta, Clyde Tombaugh, che la apprezzò e la propose alla comunità. Una storia d’altri tempi. Venetia visse 90 anni, vide partire la sonda al “suo” Pluto, ma morì nel 2009, quando New Horizons non era neanche a metà strada.
Sono sempre più convinto però che declassare Plutone da nono pianeta a nanopianeta fu la scelta giusta: adesso vien fuori che è in realtà in un sistema binario con la sua maggiore luna, grande un decimo di lui, e con intorno una danza semi-disordinata di oggetti.
Forse, la vera storia del sistema di Plutone e dei suoi satelliti cominciò come quella del sistema Terra-Luna, con un gigantesco botto tra il proto-Plutone e un oggetto simile, questo sì di passaggio. La gravitazione fece il resto: il pezzo più grosso a fare il duetto con Plutone, gli altri frammenti, intorno, in una danza solo apparentemente disordinata.
Parlando di nomi, una volta deciso per Plutone, la sua luna maggiore non poteva che chiamarsi Caronte (“ Caron dimonio con occhi di bragia” dice Dante), il traghettatore delle anime del regno dei morti. Le altre quattro lune minori, scoperte recentemente, si chiamano Cerbero, Stige, Notte e Idra, tanto per stare in tema.
Ma la sonda Nasa (che non si preoccupa di mitologia greca) adesso è arrivata al sistema Plutone. Il 14 luglio è passata nel punto più vicino al nanopianeta. L’ultima possibilità di aggiustamento di rotta per New Horizons era stata il 4 luglio: non ce ne è stato bisogno. È arrivata dritta sul bersaglio, in traiettoria balistica a sfiorare Plutone, e poi andare oltre.
Per cominciare, dall’incontro ravvicinato capiamo meglio questa storia del sistema di piccole lune, unico nel suo genere per un oggetto così piccolo. Non sono sferiche, pare, ma bitorzolute, a forma di pera o di palla da rugby. E poi sono di colori molto diversi. Tre sono bianco brillate (tipo ghiaccio) e uno è nero come il carbone: forse il resto di un pezzo dell’interno di Plutone. Forme e composizioni irregolari, mostrate dalle prime foto, sono proprio un forte indizio di origine in un evento improvviso e traumatico, forse non lontanissimo nel passato.
Caronte stesso, lui bello rotondo, ma butterato di crateri, mostra una grossa cicatrice, tipo Grand Canyon, dentro il quale cresce addirittura una montagna. Deve aver avuto un passato difficile.
Ma il grande protagonista dell’incontro del 14 luglio è stato Plutone stesso. La sonda è volata vicino alla superficie: 12.500 km, andando relativamente piano rispetto al pianeta, meno di 14 km al secondo. Per 2 ore e mezzo ha scattato centinaia di foto, scritte subito nella memoria di bordo. Solo che per mandarle a Terra, da cinque miliardi di km, ci vuole tempo. Per ora, ne abbiamo una manciata, l’uno per cento, ma bellissime.
Mostrano un mondo ghiacciato, con una grande pianura liscia, subito chiamata “Sputnik”. Non ha crateri, e questo vuol dire che è giovane, meno di 100 milioni di anni (Plutone ne ha 4,6 miliardi).
Si deve quindi immaginare qualche forma di attività, qualche sorgente di energia che porti in superficie materiale nuovo. Per esempio acqua, tenuta liquida all’interno da qualcosa (decadimento radioattivo?) e poi subito gelata in superficie, a fare un gigantesco patinoire? Ci sono anche crepacci, abbastanza regolari, e poi, lì vicino, catene di montagne. Anch’esse tutte di ghiaccio, probabilmente, alte più di 3500 metri: chissà che pareti. Le hanno chiamate Monti Norgay, dal cognome di Tensing, con Hillary il primo salitore dell’Everest.
Un bel problema fisico è l’atmosfera del nanopianeta. Sappiamo che c’è, anche se tenue, ma non di che cosa esattamente sia fatta. Un primo risultato, importante, l’abbiamo già ottenuto: c’è gas metano su Plutone, con tutto quello che ciò implica per la chimica organica di base e le reazioni probabilmente in corso sulla superficie o nell’atmosfera.
Per analizzarla, qualitativamente e quantitativamente, si è usato un sistema doppio, ottico e radio. Quando la sonda è passata dietro al pianeta rispetto al Sole, un sensore ha osservato il Sole sorgere dal bordo del pianeta stesso. Come all’alba sulla Terra, i raggi passano attraverso l’atmosfera e ne rendono possibile lo studio.
L’altro sistema è simile, ma usa un segnale radio continuo mandato da Terra, cominciato quando la sonda era dietro a Plutone. Il segnale è arrivato attraverso lo spessore della atmosfera nel momento in cui la Terra è sorta dietro a Plutone. Sembra ispirato alla improvvisa emissione del monolito di “2001: Odissea nello spazio” (e forse lo è), ma nemmeno Kubrick o Clarke avevano pensato a Plutone.
Quasi dieci anni di viaggio per due ore di foto, e via. La sonda non si ferma, va troppo veloce per mettersi in orbita intorno a Plutone e non ha più carburante per frenare, anche se volesse. C’è stato giusto il tempo per un saluto al volo da parte dell’unico uomo mai passato vicino a Plutone: proprio colui che Plutone l’aveva visto per primo. New Horizons ha infatti a bordo un contenitore speciale con un pizzico delle ceneri di Clyde Tombaugh, certo felice dell’occasione. In spirito, non è da solo: con lui, a bordo, ci sono scritti più di 400 mila nomi di persone che, adesso, sono già a più di cinque miliardi di km da casa.