L’accostamento tra la capitale italiana e la mafia non è più tollerato dal premier. Già pentito di aver dato un’ultima chance a Marino. E il voto in città è sempre più probabile

Il funerale di Vittorio Casamonica
Era un’ora tarda della notte, quando sul cellulare di un esponente storico del Pd romano apparve un sms firmato dal presidente del Consiglio. «Che idee hai su Roma?». Un sondaggio diretto che Matteo Renzi stava conducendo in quei giorni con i più autorevoli personaggi della città, senza affidarsi a mediatori come il presidente del Pd e commissario del partito romano Matteo Orfini. Che fare di Roma e del suo sindaco Ignazio Marino? Il premier chiedeva, avanzava dubbi, per poi arrivare sempre alla stessa conclusione: «Mi confermi anche tu che resta una sola strada: il commissariamento del Comune e nuove elezioni tra un anno».

Questo era il pensiero originale di Renzi all’inizio dell’estate, il rimpasto della giunta Marino gli è sempre sembrato una strada di ripiego, figuriamoci cosa pensa ora, alla fine di un mese in cui è successo di tutto. Dal reportage shock del “New York Times” sul degrado e la sporcizia della città alle immagini dei funerali di Vittorio Casamonica che hanno fatto il giro del mondo. E si ritorna al via, a quel maledetto accostamento, temuto, rimosso, negato anche nella relazione del Viminale che doveva indirizzare le scelte del governo sullo scioglimento del consiglio comunale capitolino per infiltrazioni mafiose.

Roma è la capitale della Repubblica, un’ovvietà riconosciuta in tempi recenti dalla Costituzione all’articolo 114, in nome del quale è stata approvata l’apposita legge. Ma Roma, in questo 2015, è diventata anche, nell’immaginario e sui media non solo italiani, la capitale della mafia. È stata trasformata nell’ideale set di una fiction alla “Gomorra” o in un remake degli anni Ottanta a Palermo: il maxi-processo per i cinquantanove imputati di Mafia Capitale che prenderà il via il 5 novembre ricorda in sedicesimo quello che cominciò nel febbraio 1986 nell’aula bunker dell’Ucciardone nel capoluogo siciliano. Anche in questo caso c’è l’aula blindata di Rebibbia, per motivi di sicurezza. Ma in Sicilia e in Calabria da decenni tra i capi della criminalità e gli uomini dello Stato chiamati a contrastarli va avanti il confronto (e spesso la collusione). Mentre per Roma la presenza della mafia appare una novità che gli apparati non sono in grado di gestire.

Nel caso del funerale di Casamonica, le forze dell’ordine sono state beffate, ingannate. Il controllo del territorio è apparso saldamente in mano alla famiglia del defunto, mai condannato per reati di mafia. Con un pezzo importante della Capitale strappato alla sovranità dello Stato e conquistato da un clan potente per usi privati. «Si è visto il disdoro di una città non controllata», è stato costretto ad ammettere il prefetto di Roma Franco Gabrielli. E poi ci sono i giornalisti intimiditi e malmenati, gli assessori che girano con la scorta, l’omertà in alto e in basso. Le sopravvalutazioni mediatiche: l’elicottero che volava sui tetti del quartiere Tuscolano con il lancio dei petali di rosa ai funerali di Casamonica più che mafioso è pacchiano, cafone. E le sottovalutazioni ciniche, quando nei giornali si gioca a fare i piccoli Sciascia e per accidia intellettuale si nega l’esistenza della mafia legata alla politica. E i sospetti, i veleni.

Il bello è brutto, il brutto è bello, come per le streghe di Macbeth o nelle storie di collusione in cui non sai da che parte sta il bene o il male. Il senatore del Pd Stefano Esposito, neo-assessore ai Trasporti del Comune di Roma e commissario del partito nel municipio di Ostia, ha scritto il 15 luglio una lettera alla commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi. E ha denunciato che sul litorale romano «esistono due associazioni anti-mafia, oltre a “Libera” che si impegna come si conviene a una associazione che contrasta la malavita, “Luna Nuova” e “Cittadini contro le Mafie e la Corruzione”. Le modalità operative di queste associazioni sono singolari, per non dire simili nei modi e nei comportamenti a quelle delle famiglie malavitose».

«Un paradosso», hanno replicato le associazioni sotto accusa, «visto che il senatore Esposito è espressione del Pd, il partito maggiormente e numericamente coinvolto con i suoi quadri nello scandalo di Mafia Capitale e con il suo ex presidente del municipio di Ostia Andrea Tassone ritenuto il nesso unificante tra politica e i clan capitanati da Buzzi e Carminati». Ma intanto il fango è stato lanciato, da una parte e dall’altra: la finta associazione anti-mafia si scontrava con il presidente del municipio di Ostia che però è stato arrestato per rapporti con i mafiosi...

Il bello è brutto, il brutto è bello. Il socio di Massimo Carminati Salvatore Buzzi, di fronte ai magistrati che indagano su Mafia Capitale volati nel carcere sardo di Badu ’e Carros per ascoltare le sue deposizioni spontanee, nelle intenzioni voleva spalancare i pozzi della corruzione politica, dalla regione Lazio amministrata da Nicola Zingaretti alla squadra del sindaco Marino, tutto pur di allontanare da sé l’accusa più grave, il vincolo di associazione mafiosa. Ma ha scatenato la reazione indignata del procuratore aggiunto Michele Prestipino, il numero due di Giuseppe Pignatone, e degli altri pm che hanno giudicato non attendibili le sue accuse. E anche questo è un classico delle storie siciliane: la figura del falso pentito che mescola fatti veri a invenzioni. Perché poi resta questo il nocciolo della questione: si è formata a Roma, negli ultimi anni, una cancrena chiamata mafia, autoctona, indigena? Dovrà rispondere a questa domanda il processo che comincia a novembre.

Ed è su questo punto che si è mosso lo scontro sulla relazione del ministro dell’Interno Angelino Alfano presentata al Consiglio dei ministri del 27 agosto sullo scioglimento anticipato del Comune di Roma per mafia. Per mesi si è ripetuto che sarebbe stata una soluzione insostenibile, alla vigilia del Giubileo e con i riflettori internazionali puntati addosso. I funerali di Casamonica hanno dimostrato che per sfigurare il volto di Roma le immagini valgono più dei fascicoli ministeriali.

E il gioco è tornato al punto di partenza, a Palazzo Chigi, nelle mani di Renzi. Perché la relazione Alfano attacca «i gravi fenomeni di condizionamento della vita politico-istituzionale dell’ente che hanno indebolito i presidi di legalità a Roma» e consegna al prefetto Gabrielli il compito di mettere sotto tutela l’azione del Campidoglio. Un ruolo da super-commissario di Roma rafforzato dall’altro provvedimento del governo Renzi, la decisione di affidare al prefetto i pieni poteri sugli appalti del Giubileo, gli stessi concessi a Giuseppe Sala quando l’emergenza sull’Expo di Milano faceva temere che i padiglioni non sarebbero stati terminati in tempo. Ottanta milioni di euro arriveranno al Comune per la manutenzione ordinaria e straordinaria della Capitale.

La scelta di Renzi è il commissariamento soft di Marino con Gabrielli, già ipotizzata quasi cinque mesi fa (“l’Espresso” numero 15). La conferenza stampa del prefetto sul funerale di Casamonica mentre il sindaco era lontano, in vacanza nei Caraibi a scrivere un libro sulla sua avventura romana, è la testimonianza di un passaggio già avvenuto. Ma nonostante il Giubileo, al di là dell’esito del prossimo maxi-processo e delle relazioni del Viminale, dei commissariamenti prefettizi e del sindaco Marino, il sistema Italia ha per ora mancato completamente l’occasione di trasformare il disastro di Mafia Capitale in una grande questione nazionale.

Modello Roma, si teorizzava negli anni Novanta e Duemila, quando le giunte di centro-sinistra di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni coltivavano l’ambizione di presentare la città come un modello da imitare per tutto il Paese, in grado di contendere alla Milano del centro-destra il primato dell’innovazione. Oggi quella stagione si è capovolta. Mai l’Italia è apparsa così lontana dalla sua capitale. E mai è stata così ostentata la distanza di un presidente del Consiglio da Roma. C’è un fossato incolmabile tra il premier venuto da Firenze e una città che non ama, in cui non si è mai voluto inserire. Nella lettera sul “Messaggero” in cui alla fine di luglio dava il via libera al rimpasto della giunta Marino, Renzi ripeteva di essere pronto ad aiutare la città, ma che la responsabilità toccava al sindaco: un problema suo, non del governo nazionale. Eppure, non esiste rinascita italiana senza la salvezza di Roma. Se non la cool London dell’era Blair, almeno una capitale di cui non vergognarsi.

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