Il primo incontro con quello che era stato il mio nemico è avvenuto di notte. Avevo paura, anche se non ero solo, con me c’era Abu Bakr, un uomo che mi era stato presentato qualche giorno prima, a Nairobi, in Kenya, da un amico inglese che sapeva che stavo occupandomi sempre più nel profondo di Islam e della sua deviazione armata. Il ragazzo aveva smesso da poco di essere mio nemico, aveva scelto di uscire dal gruppo armato e di fare ritorno nel suo villaggio, in segreto, per paura delle ripercussioni degli al-Shabaab, e mi voleva affidare la sua storia, voleva che i ragazzi la conoscessero per stare lontani dalla violenza.
Mi trovavo lì, a due passi dal confine con la Somalia, per respirare da vicino lo spirito del mio tempo, per guardare dentro il cuore della falda, della spaccatura che da un millennio avvicina e contrappone le due più grandi religioni del mondo. Era tempo che studiavo i movimenti migratori.
Cosa avverrà, era la domanda, da qui a qualche anno, al massimo tra qualche decennio, alla cultura che sentiamo come nostra, quella cristiana, quella occidentale, quando milioni di persone si saranno mosse e, una volta di nuovo nella Storia dell’umanità, ci saremo “integrati” in una nuova specie umana?
Il rapporto tra le due culture è, oggi più che mai, di contrasto. Ormai è guerra aperta e dichiarata. Da un lato le grandi corazzate militari dei giganti occidentali, dall’altro i gruppi armati dei fondamentalisti. Andare a scrutare quello spazio, quella frattura, andare a sentire il puzzo della polvere da sparo dei fucili di quella guerra, comprendere le dinamiche e le logiche dei reclutamenti.
Ma non solo. Comprendere, e quindi sentire nel mio stesso cuore, quali pulsioni portano un ragazzino a voler divenire guerriero contro l’Occidente. Ero lì per cercare di capire il mondo in cui mi è dato di vivere. Mia responsabilità, del mio lavoro di scrittore.
Avevo incontrato Abu Bakr in un caffè pieno di gente sulla larga Kenyatta avenue, a Nairobi. «Il mio nome significa “Il grandemente veritiero”», è stata la prima cosa che mi ha detto. «È il nome del migliore amico del Profeta Maometto, e primo Califfo del nostro popolo». Lo sapevo, certo. La collezione degli hadith del Profeta, la sterminata raccolta delle azioni e degli aneddoti sulla vita di colui che ricevette l’ultima rivelazione divina, fu iniziata proprio da Abu Bakr, il secondo essere umano a convertirsi all’Islam, dopo Khadija, la moglie di Maometto.
Mi affidai a lui.
Da Nairobi, su un pullman arrugginito ci spostammo a Mombasa. Il giorno seguente, sopra un pullman ancora peggiore e scortati da soldati armati, giungemmo a Mokowe. Il rischio di essere attaccati dai predoni delle tribù somale era alto, ecco i fucili da guerra dei soldati. Da Mokowe ci imbarcammo per l’isola di Lamu, un paradiso per i turisti e dunque uno dei luoghi prediletti per gli attacchi degli al-Shabaab, i fondamentalisti somali che stanno guadagnando sempre più potere e influenza nel corno d’Africa.
La strategia degli Shabaab è chiara e decisa: diventare uno dei gruppi di al-Qaeda più influenti del mondo, convinti dell’importanza della conquista del singolo territorio. Gli Shabaab sono stati i primi a decidere di non schierarsi a fianco dell’Is, ma di rimanere legati ad al-Nusra in Siria, seguiti poi da al-Qaeda nello Yemen, in Egitto e nel Maghreb. Stavo per incontrare uno dei suoi ex soldati, e anche uno dei più agguerriti, sapevo che era diventato uno dei capi e sapevo che nelle file dei fondamentalisti, e in generale di tutti i gruppi armati organizzati nel mondo, l’autorevolezza si conquista ammazzando.
Dalla cittadina di Lamu cominciammo a salire a piedi verso il centro desertico della piccola isola. Avremmo camminato per cinque chilometri e poi avremmo incontrato «il ragazzo», come lo chiamava Abu, in un villaggio a metà strada tra Lamu e Matondoni.
Arrivammo verso le otto di sera, il sole era tramontato da un’oretta buona e camminavamo guidati dalla luce di una torcia potente. Notte. Il villaggio era poco più che un accampamento: forse una trentina di case di legno, fango e pagliericcio, una piccola moschea di mattoni e uno slargo centrale, una piazza.
Alì ci aspettava, seduto sotto una tettoia di legno, la kefiah che gli copriva tutto il volto e lasciava liberi soltanto gli occhi. Io avevo paura. Alì tremava forse più di me. Tra di noi una lampada a gas.
«I only wanted justice», io volevo solo giustizia, è stata la prima cosa che Alì mi ha detto, guardando in basso. Più che quella frase, che certo mi colpì, ricorderò sempre i suoi occhi, mai ne avevo visti così e credo che mai ne vedrò.
Quella sera non potevo sapere che il destino mi avrebbe portato a frequentare quella guerra molto più di quanto avrei immaginato. Che, a seguito di un mio romanzo fortunato (“Non dirmi che hai paura”), l’Onu mi avrebbe nominato Goodwill ambassador Unhcr e che questa nomina mi avrebbe portato a frequentare con un certo agio il campo di Mogadiscio - un luogo che quel giorno per me era del tutto inaccessibile, data la guerra disastrosa - e a capire da vicino cosa è la guerra tra i fondamentalisti e gli eserciti guidati da mani occidentali (quello di African Union, che dal 2007 con la missione Amisom fa la guerra agli Shabaab insieme all’armata Onu), a incontrare guerrieri che combattono da entrambe le parti. Eppure occhi come quelli di Alì non ne ho mai più visti. Profondi come se non avessero fine, profondi come se lo spazio dell’anima che rispecchiano fosse perso per sempre, largo come i confini dell’universo.
Cosa c’è dentro questa profondità inarrivabile?, continuavo a chiedermi senza trovare risposta, nei giorni in cui Alì mi affidava la sua esistenza di ex combattente. Era stato reclutato fuori da una moschea e da una scuola coranica dove a sedici anni aveva deciso di studiare per dare un senso alla sua giovane vita, per sfuggire a un’esistenza segnata dalle sue umili origini dentro il villaggio. Lì, dopo molte resistenze, era stato avvicinato dagli Shabaab e gli avevano offerto denaro, vestiti, la possibilità di diventare un vero uomo attraverso il fucile, la possibilità di credere nel Bene e di combattere nel suo nome. «Io volevo solo giustizia» continuava a ripetermi Alì, e quegli occhi infiniti si colmavano d’acqua. Era stato portato in jeep dentro il deserto somalo e da lì chiuso dentro un campo d’addestramento per tre anni. Viveva in una tenda beduina insieme ad altri soldati giovanissimi e gli insegnavano a sparare, a saltare fossati, a fronteggiare un attacco armato, a lanciare un razzo da un “mezzo tecnico” (così li chiamano, e non sono niente di più che jeep corazzate su cui viene montato un lancia-stinger).
Riceveva lezioni di religione, gli veniva chiesto di mandare a memoria e ripetere all’infinito alcuni versetti del Corano, i più violenti. La sura al-Anfal (Il bottino), per esempio il quattordicesimo versetto: «Assaggiate questo! I miscredenti avranno il castigo del fuoco!», oppure il diciassettesimo: «Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi. Quando tiravi non eri tu che tiravi ma Allah».
Gli venivano mostrati video di uccisioni di civili da parte degli eserciti occidentali, in Palestina, a Gaza, in Iraq, in Afghanistan, in Giordania. Gli veniva detto che gli occidentali erano un popolo senza Dio, senza valori, decaduto, in cui la religione era il capitalismo (citando Benjamin, con o senza consapevolezza). Gli veniva spiegato il valore del martirio come arma onorevole per fronteggiare aerei e armi chimiche che loro non possedevano. Alla fine gli fu assegnato il suo fucile e gli fu ordinato di ammazzare il primo nemico in battaglia. Solo allora sarebbe diventato uomo.
Le parti delle uccisioni per Alì erano le più dolorose. «È qualcosa che mi ha segnato per sempre», diceva. «I will never be normal again», non sarò mai più normale, ripeteva. Fino al giorno della svolta. Ogni guerriero nel campo deve avere una sposa, perché alla sua morte (certa) lei gli possa generare una discendenza. Ma nella sua giovane sposa (rapita da villaggi circostanti, come tutte le altre spose bambine), Alì trova qualcosa che mai aveva conosciuto. Lei apre in lui lo spazio della compassione. Fino al giorno in cui Alì fa la cosa tra tutte più proibita per un guerriero, la cosa che gli sarebbe costata la morte: piange. Quando gli viene chiesto di ammazzare dei bambini cristiani nel cortile di una scuola Alì non riesce a sparare e invece piange. Nel frastuono degli ak-47 dei compagni, Alì si tira la kefiah sugli occhi per coprire le lacrime. Quello è il momento in cui la sua vita cambia per sempre, e Alì comincia a vedere la luce. Una notte, prende la sua sposa bambina e insieme fuggono dal campo.
Era lì davanti a me che mi raccontava la sua vita, e alla fine neanch’io riuscii a trattenere le lacrime. Solo quando ci abbracciammo, dopo quelle lunghe giornate che ci tennero legati in una incredibile storia di riscatto, di formazione, di guerra e di rinascita, capii cos’era quella cosa misteriosa che gli occhi di Alì mi rimandavano: era l’immagine di me stesso. Al fondo dei suoi occhi c’ero io. Io e il mio nemico eravamo diventati la stessa cosa. Due persone che partecipano della stessa anima, quella di cui partecipa tutta l’umanità. Ciò che ci divideva, capii allora, veniva molto dopo, era legato a ragioni molto differenti, a ragioni che includevano il petrolio e il colonialismo, anche. Io e il mio nemico eravamo la stessa cosa. Due esseri umani che volevano vivere in pace e sognavano la giustizia. Era un pensiero oltraggioso?
Così ho raccontato la sua storia in un romanzo che si chiama Il grande futuro, come fa la letteratura. È soltanto una storia singolare che può riuscire nel miracolo di aprire alla comprensione dello spirito di un tempo. Ho prestato le mie parole al mio nemico. Perché il mio nemico avrebbe fatto lo stesso con me. Se guardiamo dentro il mondo e le sue storie ciò che emerge fuori è la nostra umanità.
La nostra umanità, ecco.
Il resto forse è il danno dentro cui ci fanno morire e provano a tenerci terrorizzati e tranquilli.
Oggi, Alì dedica le sue giornate a tenere i bambini di strada lontani dalla guerra.