La scrittrice Valeria Parrella incontra l'autrice francese di culto. Per la sua arte di parlare di sé nascondendosi allo stesso tempo. Un colloquio sulla memoria, la famiglia, il tempo. E sulla difficoltà di essere donna e scrivere

Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia, il lunedì è chiusa al pubblico. Militari che presiedono in mimetica imbracciando i mitra, lunga attesa alla portineria, e poi su per le scale ovoidali, statue marmoree e giardino pensile affacciato sui tetti di Roma.

Siamo in pochi al Caffè Colbert: qualche studioso, qualche ragazzo in residenza, un piccolo buffet con pasta scotta. Poi dentro, nella controra, in un irreale silenzio, vedo Annie Ernaux. È seduta al tavolo, immersa in conversazione con un signore. Mancano venti minuti al nostro appuntamento e siamo solo io e lei: l’ufficio stampa de L’Orma, il suo editore, mi tiene aggiornata via sms dei progressi nel traffico romano, l’editore stesso, (anche traduttore) Lorenzo Flabbi, disperso in moto, ma arriverà.

Così mi prendo questo tempo per osservarla, e non credo sia mitomania, quanto piuttosto il tentativo di vederci chiaro: ho letto tre dei suoi libri, gli unici tradotti in italiano, mi ci sono incantata, ci ho pianto, mi hanno fatto arrabbiare, li ho invidiati.

Sono storie famigliari, di operai e contadini, di infanzie e relazioni annodate tra di loro che la scrittura tenta di dipanare. “Il posto” (che è la place , il luogo dove si dispiega l’esistenza, ma anche il posto fisso, di lavoro, quello che l’esistenza la assicura), romanzo che le diede la prima notorietà in Francia. “Gli anni”, romanzo-mondo dal dopoguerra a oggi, che le ha dato notorietà internazionale, e “L’altra figlia”, l’ultimo suo racconto lungo pubblicato in Italia.

Questi libri, queste storie, quella memoria ripetuta senza pudore e per questo offerta con grande rispetto, sono passati attraverso il corpo di Annie Ernaux, attraverso i suoi occhi, sì, ma dico proprio il corpo: perché gli scrittori hanno un corpo, e le scrittrici di più.

Uno sguardo dentro di sé
La guardo. Attraversa il salone con un passo sicuro nella direzione e incerto per l’età: è bella. Ha il volto delle donne che scrivono: quello con gli occhi rivolti all’interno; e tutto ciò che pare stia guardando fuori è poco più di una traccia per non inciampare: per andare al bar o al bagno, coordinare il resto della vita: quella che sta fuori dai libri, che costituisce un raccordo tra un libro e un altro. È con “Gli anni”, la storia dei suoi anni rintracciati in sé stessa, nelle fotografie (prima le sbiadite, lontane, ingiallite, poi, a mano a mano, le più recenti: quelle nitide: per immagine e per portato), che tra qualche ora vincerà il Premio Strega Europeo, 16 voti su 24 votanti, praticamente un plebiscito.

E sì che la cinquina quest’anno era bellissima: giocavano (perché un premio è sempre solo un gioco) Ricardo Salmón, Mircea Cartarescu, Kerry Hudson e Ralf Rothmann. Si fa l’ora e ci siamo solo io e lei, le faccio ciao con la manina per segnalarle che sono puntuale all’appuntamento, ma non quello dell’intervista, (ché quello è facile: basta prendere la metro): quello della lettrice folgorata da una storia, della scrittrice ammirata da tanta maestria: la possibilità di dirsi senza emergere, dire io scomparendo.

Il piccolo miracolo dell’opera di Ernaux, ottenuto senza mettere un io “finzionale”, senza starsela a menare sulla differenza tra autobiografia e autobiografismo, senza tema della critica «si-guarda-l’ombelico» (come se quell’ombelico non fosse poi attaccato al cordone ombelicale del mondo per trarre da esso nutrimento). E invece Ernaux scrive sempre parlando di una scrittrice, dalla prima all’ultima opera racconta di sé e della propria famiglia, e spesso tira in ballo proprio il libro che sta scrivendo: nel mezzo della narrazione quasi la interrompe per dire di quanta fatica le comporti scrivere in quel momento. Quelle pagine, quelle righe che stiamo leggendo: ci riporta la difficoltà dell’averli scritti.

Ha sempre fatto così, diventando in qualche modo il personaggio stesso delle sue opere, con le vicissitudini dell’esistenza, l’emancipazione da una condizione di partenza socio culturalmente depressa, lo strappo che l’investimento nella vita borghese comporta, il cambio di linguaggio che la fa diventare ciò che è: al prezzo altissimo di non avere più una koinè che la leghi alle origini. Origini cercate, sondate, fatte rinascere nella pagina: finalmente riconquistate. «Quell’io» - mi spiega - «è un incrocio di pensieri e sensazioni che mi hanno attraversato».

Lavoro di scavo
È in fondo un percorso comune a quello di altre scrittrici della stessa generazione, mi vengono in mente i racconti di Lucia Berlin in cui la verità dell’opera è trapunta di verità oggettiva, o “Chi ti credi di essere” di Alice Munro, scritto in terza persona quello, ma con la stessa meta: di giungere a ciò che si è: una scrittrice che ha attraversato se stessa e i suoi anni per fondarsi.

Mette a fuoco: «non penso di me nel mondo ma del mondo in me»: soggetto e oggetto coincidono. Scrive: «È solo nella finzione dei libri o dei film che si ritrova la memoria», così arriviamo al vero oggetto della sua scrittura: la memoria. Quella memoria che quindi non esiste come verità, ovvero come verità è infondata, e ciò che la fonda è chi la racconta.

Come lavora? Come un’archeologa: «è una sorta di discesa dentro di me che mi permette di chiarire le idee nel marasma dello spirito (“cosa intendi per spirito?” “la coscienza”), faccio questo per tre ore al giorno circa perché è faticosissimo, intanto prendo solo appunti. Ma poi, perché tutto si realizzi, ho bisogno di star seduta a un tavolino, ovvero la memoria si realizza mentre scrivo».

Il tempo della stesura è relativamente breve, e anche quello appuntato con meticolosità alla fine dei libri. Ne “Il posto” storia di suo padre e della sua emancipazione dalla famiglia: novembre 1982-giugno 1983. De “L’altra figlia” Ernaux segna la data di conclusione, ottobre 2010. Storia particolarissima questa, forse dal punto di vista degli accadimenti la più inquietante: la storia di come a dieci anni abbia scoperto, per caso, di avere avuto una sorella, morta piccola di difterite prima che lei nascesse. Del silenzio che ha avvolto la realtà dell’accaduto e anche la sua tardiva notizia.

Un libro scritto in forma di lettera, quindi con un “tu”: «non avevo voglia di scrivere di mia sorella, ma nel diario, il diario su cui annoto tutto c’erano passaggi che facevano riferimento a lei. Però è stato solo quando è arrivata la proposta dell’editore di scriverla come lettera che ho iniziato. Il primo titolo era “Lettera a mia sorella morta”». Ci penso: «“L’altra figlia” è più bello», le dico sinceramente. Mi sorride e continua: «A questo punto mi sono applicata e ho capito che l’Editore ha intercettato un mio desiderio profondo e questo espediente del referente mi ha permesso di scrivere direttamente a qualcuno».

In realtà vi è un brevissimo accenno alla storia della sorella già nel libro scritto trent’anni prima. Un accenno mai più ripreso, un azzardo che trova la sua ragione trent’anni dopo in un altro libro. Ecco, quell’azzardo di dire una cosa lasciandola poi cadere, senza preoccuparsi che il lettore capisca di cosa si parli, senza sapere se poi si sarebbe davvero scritto di quell’argomento, io lo chiamo coraggio, o strafottenza, che poi in arte sono la stessa cosa.

Cioè non preoccuparsi del lettore mai. «Non l’ho calcolato da un punto di vista narrativo, non ho una strategia di narrazione che faccia in modo di anticipare qualcosa». È la risposta che mi aspetto, quella che voglio: in realtà tutto il tempo di questo incontro è un tentativo di chiederle scusa per l’incontro stesso: di giustificarmi per farle delle domande la cui risposta è già nei suoi libri, ad avere occhi per leggerli, e io vorrei davvero che lei pensasse che li posseggo, quegli occhi. Le dico che sono sicura che tutto ciò che io le dico sui suoi libri lei non lo sa. Cioè che sono sicura che i suoi libri si creino in una zona di sospensione dal controllo (è quello che credo del talento). Certo poi ci sono la tecnica, l’esperienza, il mestiere: ma vengono solo dopo. L’editore/traduttore teme che questa affermazione suoni offensiva, io insisto «ma no, dille proprio così: che di quello che diciamo sui suoi libri lei non ne sa nulla». Traduce. Annie Ernaux si rilassa, risponde: «è così».

La parola “scrittrice”
Accade dunque che, poiché ciò che lega i libri tra di loro è lei stessa, a leggerli si incontrano in qualche modo sempre gli stessi personaggi. So per esempio che il padre e la madre (che sono Monsieur e Madame Ernaux certo, ma anche il nome padre e il nome madre) hanno un negozietto, che la loro casa ha una scala interna, so come vedono la vita, cosa pensano per il bene della loro figlia, che valore danno ai clienti. Insomma so delle cose di loro perché diventano dei “personaggi”. Come accade a leggere Salinger per intero: Franny e Zoey, Seymour, Buddy, sono tutti personaggi della famiglia Glass presenti in libri diversi. «Io non ho l’intenzione di farne dei personaggi, né ho l’impressione che lo siano. Ok, accetto che ci siano dei personaggi come figure ricorrenti, ma se prendiamo per esempio “L’altra figlia”… io di lei non racconto tanto, forse perché non so tanto di lei. È solo un pretesto per parlare di assenza, di morte, di patrimonio famigliare e della scrittura. So che c’è una coerenza nei miei libri, anche perché la critica la ha sottolineata, ma è involontaria…».

Ne “L’altra figlia” compaiono delle fotografie. Sono fotografie di luoghi, una casa normanna, la stessa, credo, che il padre imbiancò come segno di modernità nel romanzo del 1983, le stesse foto descritte con cura ne “Gli anni”. Che ruolo hanno nella ricomposizione della memoria? «Io non parto dalle foto bensì le foto sono incluse nel mio percorso perché sono un elemento archivistico». E poi: «la memoria è sempre la memoria di qualcuno». L’incontro sta per concludersi, arriva una giornalista di un’altra testata, qualcuno scatta una foto ricordo, le chiedo ancora una cosa che mi interessa: se in Francia, oggi, ha senso parlare di questione femminile nella scrittura. Se viene stigmatizzata, come fu per Annamaria Ortese, se bisogna difendersi, come forse fece Elsa Morante autodefinendosi «uno scrittore». Ernaux ne è convinta: accusa con una smorfia antica, mentre mi risponde, le critiche sessiste che la sommersero ai principi della carriera.«Anzi, voi siete fortunati ad avere la parola scrittrice, noi diciamo di tutti l’écrivain , esiste il femminile écrivaine ma è malvisto e poco utilizzato perché l’idea del mondo culturale francese è che la vera letteratura è quella fatta dagli uomini. Sì, ci sono scrittrici molto famose: poche, molto famose, e questo cela le ineguaglianze che ci sono dietro. Vale anche per i premi letterari: prendiamo i più importanti e facciamo una short list : ci sono sempre più uomini che donne».
Un piccolo correttivo può essere il Premio Strega Europeo, o la raccolta dei suoi romanzi in un unico volume dell’editore Gallimard, ma intanto mi congedo con un rimpianto che non so spiegarmi, un’anticipazione di nostalgia che mi commuove e sorprende: le chiedo l’autografo. Mi scrive «avec amitié» (sì, sì: è mitomania dirlo qui).