Lontano dalle metropoli. Tra povertà, decadenza, abbandono e sogni. Viaggio negli States abbandonati in sei anni di fotografie. Case e quartieri rivelano il declino industriale, il sogno tradito (Foto di Mark Power)

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Correndo lungo la State Highway 7 dell’Arkansas, tra le cittadine di Harrison e Jasper, a nessuno può sfuggire la grande insegna, un enorme cartello vuoto ma con la cornice a corona ancora intatta e poco più sotto un cartello che dovrebbe lasciare pochi dubbi: “No Trespassing, Violators will be prosecuted”. Un divieto che in realtà viene (quasi) sempre disatteso, perché dietro quell’insegna si apre Dogpatch Usa, quello che un tempo era un grande parco a tema e oggi, lasciato in totale abbandono con i suoi vecchi ottovolanti arrugginiti, i laghetti artificiali ammuffiti, i binari delle finte ferrovie semi divelti, è un vero e proprio monumento alla “Deep America” di un tempo che fu.
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Dedicato a Li’l Abner, il celebre protagonista del cartoon di Al Capp e alla sue vicissitudini nella comunità del povero e montagnoso villaggio (fittizio) di Dogpatch, quelle strisce a fumetti raccontarono per decenni, meglio di saggi e trattati sociologici, la vita degli “hillbillies”, i contadini dei monti Appalachi che negli Stati Uniti rappresentano lo stereotipo del villico stupido, incolto, gran bevitore e un po’ manesco. Raccontando le vicende della famiglia Abner, Al Capp riuscì nel non facile intento di rappresentare quelli che oggi vengono comunemente definiti redneck, in modo insieme simpatico e derisorio, mettendo in evidenza la loro ingenuità a confronto con quella della gente (e soprattutto dei politici) di città, intrigante e imbrogliona.
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Disegnatore anarchico e discusso, Al Capp era politicamente un conservatore illuminato (difese, sin dagli albori, i diritti dei gay), amava i paradossi (si presentò a John Lennon e Yoko Ono così: «Piacere, sono un orrendo Neanderthal fascista, come state?») e il parco a tema dell’Arkansas diventò ben presto - inaugurato nel 1968 rimase aperto fino al 1993 - un ritrovo o una meta per i conservatori dell’America rurale, quelli che oggi sono la base elettorale di Donald Trump.
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Non è quindi un caso che Mark Power, il fotografo britannico autore delle straordinarie foto che pubblichiamo, abbia scelto anche Dogpatch Usa per raccontare un’America che pochi conoscono, un’America diversa da quelle dei circuiti turistici e delle grandi metropoli, un’America priva delle Skyline di Manhattan o di Chicago, dei ricchi quartieri di Hollywood o delle tecno-aree della Silicon Valley. Foto che fanno parte di un progetto, Good Morning America (ora diventato anche un libro), iniziato sei anni fa con un lungo viaggio per esplorare visivamente cosa sia l’America odierna. Così simile - almeno per molte cose - a quella che abbiamo imparato a conoscere e ad amare attraverso grandi film, romanzi epici e viaggi intrapresi da ragazzi, eppure anche così diversa da quella che troppo spesso viene raccontata attraverso stereotipi e pregiudizi.
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Sei anni lungo le strade meno conosciute di questo sterminato Paese, con i suoi cinquanta Stati, le sue duecento etnie, i tre fusi orari e una geografia che offre tutto e il contrario di tutto. Con uno sguardo particolare ai grandi Stati del Sud, dalla Florida meno conosciuta a quelli che furono il centro dello schiavismo come Georgia, Alabama e Mississippi, dal cuore degli Appalachi fino al Tennessee, dal Kentucky alla Virginia. Un viaggio fatto di immagini che si è soffermato a lungo sulla Rust Belt, quella cintura ormai arrugginita dei grandi Stati del Nord (Pennsylvania, Ohio, Indiana, Michigan) che si affacciano fino ai Grandi Laghi; le cui industrie di auto, acciaio e manufatti hanno fatto grande l’America del primo Novecento e del New Deal di Franklin Delano Roosevelt prima di conoscere i disastri delle crisi che dagli anni Settanta fino al 2008 ne hanno segnato un inesorabile declino da cui solo recentemente hanno iniziato a riprendersi.
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E poi le coste, con una California anch’essa poco conosciuta e lontana dalle luci di Hollywood, il Nevada che vive nascosto dalle luci degli hotel-casino di Las Vegas, l’Arizona terra di frontiera e di immigrazione, lo Utah dei mormoni, le Grandi Praterie dove per chilometri e chilometri puoi non incontrare nessuno.
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Ambienti diversi, storie e culture diverse che attraverso la macchina fotografica di Power si unificano in un grandioso ritratto degli Stati Uniti post-industriali, i cui drammatici cambiamenti sono forse appena iniziati. Un Paese, questa America di oggi, dove i segni della diseguaglianza sociale e di un degrado che si può toccare anche fisicamente nelle aree più abbandonate sono lo sferzante contraltare dell’opulenza, della tecnologia, della ricchezza di nuovi lavori che rendono gli Usa ancora di gran lunga la prima grande potenza del nostro pianeta.
È l’America vera, l’America delle contraddizioni. All’inizio di quest’anno sul New York Times un articolo nelle pagine degli editoriali venne titolato così: “The U.S. Can No Longer Hide from Its Deep Poverty Problem”.
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Troppo a lungo gli Stati Uniti, anche negli otto anni dell’era Obama, non hanno saputo o voluto fare i conti con una piaga, quella della povertà, che riguarda decine di milioni di persone, di cittadini americani. Si è discusso e si è polemizzato molto negli Usa - soprattutto dopo la inaspettata vittoria elettorale di Trump e nel corso di questi due primi anni di The Donald alla Casa Bianca - sulla reale entità dei poveri e della povertà nella più ricca nazione della Terra. Stando ai dati forniti da un organismo governativo che non può essere tacciato di disfattismo quale il Census Bureau, nel settembre 2017 più di uno su otto americani viveva in povertà (40 milioni, pari al 12,7 per cento della popolazione). E quasi la metà di costoro (18,5 milioni) vivevano in condizioni di “profonda povertà”, con redditi familiari dichiarati inferiori alla metà di quella che è considerata la soglia di povertà. 3,2 milioni di americani vivono addirittura con una media pari o inferiore ai 4 dollari al giorno.
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In altre analisi ed in altri studi il termine “deep poverty”, povertà profonda, indica più genericamente una famiglia con un reddito inferiore alla metà delle soglie di reddito di povertà degli Stati Uniti ufficiali. Ad esempio: la soglia del reddito di povertà per una famiglia di quattro persone nel 2016 è stata valutata in 24.563 dollari annui Una famiglia sarebbe dunque in “profonda povertà” se il suo reddito fosse inferiore alla metà di questo importo, ovvero pari a 12,281 dollari annuali. Una cifra che equivale a circa 8,40 dollari per persona al giorno, circa il doppio dei 4 dollari stimati dal Census Bureau.
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Che siano quattro o otto i dollari con cui vivere mediamente ogni giorno resta comunque un fatto: se pensiamo che negli Stati Uniti la disoccupazione è a livelli straordinariamente bassi e in alcune aree inesistente (nazionalmente è al 3,7 per cento, stando ai dati di novembre 2018) possiamo renderci conto che il problema non è certamente quello della mancanza del lavoro, ma piuttosto quello di una diseguaglianza salariale e sociale che non si riesce a fermare.
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Il lungo viaggio visivo di Mark Power (Good Morning America è il primo di una serie di volumi e il progetto dovrebbe andare avanti fino al 2024), pur mostrandoci sacche di abbandono e di povertà, non vuole però essere un viaggio nell’America povera e disperata. Le sue fotografie sembrano piuttosto voler cogliere un senso di disordine insito al centro delle grandi narrazioni americane, che siano scritte, raccontate o visive. Dove i binari che si incrociano ad Harlan, Kentucky sono lo stesso simbolo di abbandono come lo è la discarica delle automobili di Waco, Florida, dove il biliardo dell’Uncle Jesse’s Good times Dynomite-Club di Clarksdale, Mississippi fa il paio con il negozio abbandonato del barbiere di Lead Hill, Arkansas, dove sembrano lasciati a se stessi anche i nuovi quartieri residenziali di Petaluma, California e di Pittsburgh, Pennsylvania, fino a quella Louisiana dove si pretende di curare il “liberalism” (la sinistra, i democratici) come un “mental disorder”, una malattia della mente.

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