Ci ha fatto scoprire l’America letteraria, da Hemingway a Bret Easton Ellis. A dieci anni dalla scomparsa, scrittori e traduttori la ricordano. E fanno i conti con quel che resta di quei miti

Per ricordare Fernanda Pivano ho deciso di fare quello che avrebbe fatto lei: aprire la rubrica e chiamare un po’ di amici e maestri per farmi raccontare qualcosa. Ha lasciato a noi amanti dell’America letteraria un’eredità sia divertente che complicata, inutile star qui a scrivere un santino.

Marco Cassini, editore di Sur, è tra quanti hanno ricevuto di prima mano le benedizioni beat di FP. Gli capitò poco dopo aver fondato minimum fax, alla vigilia del suo primo viaggio a New York: «Andai a trovarla nella sua casa di Trastevere. Mi regalò un quadernetto a fiori bianchi e blu, mi fece sedere al tavolo e, sfogliando la sua agendina, iniziò a dettare: “Allora, scrivi: iniziamo dalla A. Allen Ginsberg, che disgraziato, ha dato le sue poesie da tradurre a un altro, dopo tutto quello che ho fatto per lui! Ma gli voglio troppo bene, quando lo vedi dagli un bacio da parte mia: muà muà muà! Auster: abita a Brooklyn quindi non sono mai andata a trovarlo, ma salutamelo tanto, e il numero di Lou Reed potrà dartelo lui. Vediamo, con la B: Bret Easton Ellis, vallo a trovare, vedrai avrà ancora la casa tutta vuota, una volta sono andata a una festa a casa sua, erano tutti talmente strafatti che a fine serata la gente ha iniziato ad andarsene portandosi via i mobili”. E così via. Quell’agendina mi aprì un mondo…».

In effetti Pivano ci riportò l’America letteraria da Hemingway fino a Ellis e lasciò poi parte della sua eredità morale alle case editrici indipendenti che aprirono negli anni Novanta. Nel complesso della sua opera di traduttrice e cronista, in ogni caso, mi è sembrata sempre soprattutto un cuore beat, e quindi ci sta che Sandro Veronesi, che aveva per lei una grande passione («Mi sono quasi svenuto addosso una volta, che ce l’avevo attaccata al braccio e ho dovuto chiamare qualcuno che se la prendesse perché stavo svenendo»), mi abbia voluto raccontare una cosa che andrebbe bene a Ginsberg e «a tutte le persone che lei ha amato, per come vedevano la vita»: «Io sono convinto che mia figlia Nina sia la reincarnazione di Fernanda Pivano.


Perché Fernanda è morta qualche giorno prima che lei nascesse e io il giorno prima ho sognato Fernanda. Che va bene, è normale, perché era morta. Però, una delle cose su cui i suoi strampalati ammiratori beat concordano tutti è che quando tu sogni una persona morta è la segnalazione che si è già reincarnata… Tra l’altro è una nascita tardiva, è nata sette giorni dopo. Nel frattempo è morta Nanda, capito? E dopo la sogno e il giorno dopo nasce Nina a mezzanotte. Per cui intimamente credo che mia figlia sia la reincarnazione di Fernanda Pivano. Adesso mi manca di credere nella reincarnazione, però appena ci crederò…».

Insomma, per ricordare la donna da cui per la prima volta leggemmo alcolizzati e sognatori americani preferisco una storia del genere a un regolare medaglione con foto in bianco e nero di Kerouac e Hemingway. La vita nella scena letteraria è fatta di insensatezze e di lavoro faticoso, e per parlare di Pivano è meglio scegliere questi due estremi, dal sogno alle questioni terra terra di traduzione.

Una traduttrice come Silvia Pareschi, che vive a San Francisco ed è la voce italiana, tra gli altri, di Jonathan Franzen, mi dice che «il confronto con Fernanda Pivano è imprescindibile, anche a tanti anni di distanza. Perché lei, nell’immaginario italiano, rimane l’ambasciatrice in Italia di una letteratura americana all’apice del suo splendore». Un altro traduttore, al telefono, mi ha chiesto di restare anonimo: «Non farlo dire a me - per pura viltà, ma dillo tu che… faceva degli errori enormi! E non si può dire! Non è solo che non c’era internet. Faceva errori di dizionario, anche di comprensione…».

Ma per Silvia Pareschi «poco importa se le sue traduzioni sono ormai un po’ datate, come è normale che sia (perché le traduzioni, al contrario degli originali, invecchiano)». La chiave, dice, è che con quell’approccio in prima persona ha «influenzato la cultura del suo tempo anziché limitarsi a interpretarla» e ha trovato un confronto diretto, «scevro da provincialismi», un dialogo «che aspiri a essere paritario».

Claudia Durastanti, che è scrittrice e traduttrice, racconta di quella volta che al suo festival londinese, il Fill, ha provato a spiegare, insieme al collega Vincenzo Latronico, chi fosse FP. «Latronico ha introdotto una parola: intimità. Non aveva presa sulla lingua, aveva un’idea a tratti eccessivamente romantica e ingenua della cultura americana, ma aveva intimità con chi traduceva, e questa promiscuità fisica diventata letteraria è per me il suo lascito più importante».


Edoardo Nesi, un altro che ha il doppio ruolo di scrittore e traduttore, come me, Claudia, Silvia, Vincenzo, Tommaso Pincio e tanti altri, ha sempre «sentito il bisogno di trovarmela un po’ da me la letteratura americana, e di leggermela in lingua. Perciò io questa cosa dei suoi mitici errori di traduzione l’ho vista dopo». Nesi, appassionato di problemi pratici di bottega (ha tradotto, con molto gusto, il monumentale Infinite Jest di David Foster Wallace), si mette a parlare di Fitzgerald: «Se ci pensi bene, è un autore difficile da tradurre. Perché ha questi enormi sbalzi di qualità all’interno della scrittura: cioè lui a un certo punto se vuole andare da A a B ci va paro paro, poi arriva a B e ti spara una cosa di una tale bellezza che te traduttore che ti sei abituato a quella traduzione semplice perché semplice era il testo, poi ti trovi costretto a calare di marcia e accelerare come fa lui. Fernanda Pivano con lui si abituava alle parti in cui andava piano, e lo traduceva piano anche nei momenti in cui Fitzgerald andava forte. Quindi Fitzgerald è l’autore che soffre più di tutti delle sue traduzioni. Hemingway per me alla fine l’ha tradotto bene. Poi, senti, ognuno ha il suo stile e la sua intensità di traduzione».

Ci tengo a far sentire ai laici di cosa parliamo nella bottega. Tradurre è un mestiere ridicolo: mentre sei lì a sperare di trovare il tono giusto preghi che la redazione dopo scovi i tuoi orrori. Ritraducendo Belli e dannati, qualche anno fa, con l’emozione di dover inventare la mia versione di un romanzo che mi aveva insegnato Fernanda Pivano quando avevo vent’anni e quelle pagine mi davano la certezza che volevo scrivere romanzi, trovai nelle prime pagine un suo errore che me la fece sentire molto vicina e simpatica, come una collega da poter prendere in giro. In una scena che ci racconta perfettamente l’urbanistica per caste di Manhattan, Scott ci mostra il suo eroe Anthony che prende l’autobus per tornare a casa da downtown a uptown. L’iconica griglia di strade di Manhattan ha le avenues verticali e larghe e le streets orizzontali e per lo più strette.

Così Fitzgerald si immagina che l’autobus che sale dal Village ad uptown sia come una scala i cui montanti sono quinta e sesta avenue e i pioli le streets. Un’immagine geniale che rende tautologica metafora la scalata sociale. Bene, Pivano si perde per strada e decide che Quinta e Sesta Avenue (ma lei traduce ambiguamente “Strade”) sono “la sommità” della scala a pioli, e non i due montanti. Il che sballa la topografia di New York e rende incomprensibile la scena in cui Anthony “sale” i pioli - le Streets - fino alla 52a Strada. Chissà se internet l’avrebbe aiutata, ma soprattutto chissà perché la redazione non tirò mai fuori una piantina della città per aiutarla a chiarire quel paragrafo tanto opaco (infatti si celebra chi traduce ma la traduzione è solo a metà senza una buona redazione che la setaccia). Ma riportare una cultura straniera nel proprio paese è sempre un’operazione sgangherata, è questo il bello.

Tommaso Pincio, che ha ritradotto Il grande Gatsby, pensa che senza il ruolo di ambasciatrice di FP «l’avanguardia americana avrebbe impiegato molto più tempo a essere conosciuta e letta in Italia. L’influenza che ha esercitato nel nostro paese ha pochi equivalenti nel panorama editoriale; può darsi che la memoria mi tradisca, ma mi viene in mente soltanto la mitica antologia americana curata da Vittorini per Bompiani».

E oggi cosa bisogna importare dall’America? Cosa ci importa? Isabella Ferretti dell’editore 66th and 2nd è tra le migliori figlie di Nanda perché anche in uno scenario completamente diverso cerca di importare le Americhe più scomode e stimolanti. In particolare «le nostre ultime scelte, avrai notato, sono molto contrassegnate dal tema della razza, però con delle scelte peculiari, legate ai contenuti».

Di recente Su Michael Jackson e Negroland di Margo Jefferson, o le prose di Claudia Rankine, il cui Don’t Let Me Be Lonely, importante documento dell’era Bush, «mi ha parlato come nessun’altra opera. Non porta la rabbia che ti aspetti dal mondo afroamericano, ma qualcosa di molto complesso, sottile. Claudia incarna un certo tipo di intellettuale. Ha usato i tanti soldi del premio McArthur per aprire la Casa dell’Immaginario Razziale. Ha ragionato così: si parla tanto di blackness, ma non c’è un trattato sulla whiteness: lo scriveremo noi…». Insomma forse non è più stimolante importare poeti bianchi belli e dannati.

Sulla possibilità di una mediazione culturale Claudia Durastanti è pessimista: «Ho la sensazione che sia venuto meno l’alone sacro della letteratura americana, cosa che ha un effetto palese su vendite e circolazione di certi libri in Italia (penso a Egan, Lethem, Moody e mi sembra un’altra vita, un tempo sideralmente lontano), e che non si sappia più creare appunto un contesto in cui tutta quella roba sembra rilevante. Diventa rilevante il singolo caso, un po’ libero e avulso dalla traduzione».

Martina Testa, editor di Sur e traduttrice che ha spesso viaggiato per conoscere i suoi autori, mi aiuta a fare un quadro del contesto editoriale americano post-Pivano: «Non c’è più la letteratura americana senza mercato, e quindi senza agenzie americane: il percorso è quasi standardizzato. Se tu oggi in America vuoi fare lo scrittore, nella stragrande maggioranza dei casi fai un master, cerchi un agente bravo, un editor per assicurarti un anticipo alto, fai un primo libro, vedi come va; poi magari fai il percorso accademico, insegni a scrivere a chi farà la stessa cosa tua, facendosi dare da te il blurb di copertina. Tutto questo sistema ha una potenza di fuoco. E gli altri mercati si sono strutturati più o meno a questo modo. E si va tutti alle fiere. Una Pivano oggi non può più esistere per gli Stati Uniti: quello spazio non c’è più. Vorrei esistessero, che ne so, per l’Africa, perché non è ancora strutturata, e magari nei paesi in cui c’è una classe media lì c’è una scena letteraria da scoprire. Ecco chi sta facendo la Pivano: una Ilaria Benini, editor di Add, che nella sua collana “Asia” porta delle robe che va a cercare nel sud est asiatico, a volte tradotte da lingue di cui manco abbiamo i traduttori. Lei veramente va nel posto, conosce le persone, gli autori, di prima mano».

Evitando di fare confronti impossibili tra generazioni e di dare consigli a chi viaggia per lavoro, vale la pena concludere con Tommaso Pincio che ricorda come Nanda fosse «una devota, un’appassionata, una fan. Inseguiva e si accodava ai suoi scrittori con la smania gioiosa tipica di una groupie quando ancora la nozione di groupie neanche esisteva. E la definisco “groupie” in modo tutt’altro che dispregiativo. La definisco così per quel suo bisogno compulsivo, quasi infantile di essere parte, testimone della letteratura che amava, una forma di passione pura e incondizionata che le si leggeva negli occhi e nelle parole anche in età avanzata e di cui giustamente non si vergognava. Tra l’altro lei era un tipo di groupie affatto speciale, per non dire paradossale, la groupie castigata, per nulla disposta a concedersi». Una notte, per dire, si rifiutò di salire in camera con Neal Cassady, il Dean Moriarty di Sulla Strada, e lui: «Non bevi, non fumi, non scopi, ma perché cazzo mi hai voluto conoscere?».

«Questo me la rende ancor più simpatica», dice Pincio, «anche se probabilmente al posto di Neal Cassidy mi sarebbero girate le scatole».

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