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agosto, 2019

Enrico Brizzi: «Camminare serve a capire chi siamo»

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A piedi lungo una via francigena in Puglia. In bici sull'antico confine dell'Impero Romano, dalla foce del Reno a quella del Danubio. E poi in Terrasanta. Per raccontare attraverso la scrittura l'arte di muoversi con lentezza. Colloquio con lo scrittore bolognese

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C’è il tempo lento della scrittura, quando si pe­sano le parole prima di lasciarle cadere sulla pagina bianca. E poi c’è il moto continuo, collettivo, la sorpresa per gli incontri inaspettati. Ritmi diversi che si alternano in un concerto di emozioni. Negli ultimi tempi Enrico Brizzi non si è fermato un istante: prima ha fatto un viaggio a piedi insieme agli amici Psicoatleti, la sua associazione sportiva dedicata ai cammini: da Brindisi a Santa Maria di Leuca lungo una delle tre vie francigene riaperte in Puglia. E poi lo scrittore bolognese, 45 anni, si è dedicato a una lunga esplorazione in bici, tra Olanda e Germania, la prima parte di una lunga pedalata lungo il confine dell’Impero Romano, dalla foce del Reno a quella del Danubio, che in autunno si trasformerà in reportage. «Visti i tempi, il tema dei confini mi sembra piuttosto attuale. Di qua la civiltà, di là la barbarie», ironizza Brizzi. E da un altro viaggio, compiuto nel 2008, è nato il bel libro “Il diavolo in Terrasanta” (Mondadori): tre amici da Roma a Gerusalemme, dodici settimane a piedi e poi su una barca fino ad Acri e da lì, ancora in cammino, alla Città Santa.

Cosa rappresenta la Terrasanta per i viandanti?
«Un tempo era il centro geografico delle mappe. Alcune carte medievali rappresentano il mondo come un fiore a tre petali (Europa, Asia e Africa) con al centro la città sacra. Anche dopo la scoperta dell’immensità dell’Asia rispetto all’Europa e alla parte conosciuta di Africa, cercarono di giustificare la posizione di Gerusalemme: non è il centro geografico ma il centro delle genti perché l’Asia è meno popolata. Era l’esigenza di mettere il sacro al centro del mondo antico».

La Città Santa viene ampiamente menzionata da Dante Alighieri in “La vita nuova”.
«Dante scrive che i tre pellegrinaggi più importanti sono Roma, Santiago de Compostela e Gerusalemme. Roma per San Pietro, Santiago per il sepolcro di San Giacomo e ovviamente Gerusalemme, che si impone dal punto di vista spirituale e storico. Per me la Città Santa è la culla delle storie più antiche, ascoltate da bambino: quando mettevo il bambinello nel presepe sentivo di aiutare il miracolo a compiersi, mentre i re Magi, uno bianco, uno nero e uno mulatto, simboleggiavano l’ecumenismo. Una storia di pace del tutto diversa da quella che scoprii negli anni del liceo: la guerra in Libano, Israele coinvolta nei massacri dei palestinesi per mano dei miliziani libanesi, l’occupazione israeliana del Libano del Sud. Gerusalemme madre di tutte le contraddizioni: nel luogo in cui tutto è sacro non c’è pace».

Siamo portati a pensare che il viaggio a piedi, per uno scrittore, sia un’esperienza introspettiva. E invece nei tuoi libri l’attualità occupa uno spazio inaspettato.
«È importante camminare in compagnia perché si possono fare ragionamenti collettivi. Significa arrivare ad Alba il 24 aprile per svegliarsi il giorno dopo e leggere insieme agli altri Fenoglio, riflettere sul senso di quella stagione: chi è andato in montagna, chi si è nascosto nelle cantine, chi ha indossato la camicia delle brigate nere. Camminare vuol dire rendere attuali le svolte storiche che hanno reso l’Italia quella che è e noi quelli che siamo. Ogni volta con un tema: poco più di 150 anni fa, mentre la Francia era unita da secoli, in Italia cinque eserciti inseguivano Garibaldi e Anita, che non riuscirono ad arrivare a Venezia perché braccati in mezza Penisola. Ripercorrere le loro orme significa capire chi siamo».

Camminare vuol dire indagare il tema dell’identità?
«Vuol dire trasformare i pregiudizi in conoscenza, che genera domande. Quando non sai niente ti sembra tutto semplice, quando conosci ti rendi conto che più sai meno sai e più ti importa conoscere. Parti con un bagaglio pesante, i pregiudizi pesano come il piombo, e arrivi con uno zaino leggero. Le domande sono liberatorie».

La tua associazione, gli Psicoatleti, si rifà alle antiche regole volute nel 1861 dai tre pionieri della Società Nazionale degli psicoatleti. Sono princìpi ancora validi?
«Certo, perché invitano a staccare i ponti con il te stesso stanziale. Oggi significa camminare col cellulare spento, senza guardare le notifiche di WhatsApp e Instagram perché avrai tempo di farlo mezz’ora di sera. Oggi viviamo in un perenne presente che genera uno scollamento clamoroso rispetto alla realtà circostante. Il tempo è il bene più scarso, siamo portati a riempirlo di sciocchezze mentre le vere esigenze dell’uomo non sono così diverse da quelle di 100 o 200 anni fa: essere amati, conoscere gli altri, cercare di essere apprezzati per quello che si fa, rendersi conto che gli altri sono uguali a noi».

C’ è un luogo in cui ti senti a casa?
«Un adagio diventato per noi una sorta di mantra è “dormire ogni sera sotto un tetto diverso e sentirsi a casa ovunque”. La sensazione più bella è questa. Arrivando a piedi ti senti nel pieno diritto di essere lì. Poi certo, ci sono luoghi di isolamento magnifici, certi rifugi delle Alpi con panorami incantevoli. Ma i posti in cui ti senti veramente a casa sono quelli in cui ti dici: potrei abitarci. Non provare questa sensazione a Gerusalemme è difficile: ho fatto questo viaggio con persone religiose e persone atee, la Terrasanta non lascia indifferente nessuno. Perché noi viviamo nella civiltà più dissacrante del mondo, ma se non capiamo la dimensione del sacro facciamo fatica a capire cosa dobbiamo dissacrare».

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