Il digitale? Impariamo a prenderlo con filosofia
Arriva in Italia il primo Master che indaga la tecnologia, e i suoi effetti sociali, etici e culturali, con gli strumenti del pensiero critico. Una sfida sia per gli umanisti che per i cibernetici
Non possiamo sapere se Benedetto Croce oggi sostituirebbe con “digitali” l’ultima parola del titolo del suo breve saggio del 1942 “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Ma possiamo sospettare che quel “non possiamo non” porti con sé un vincolo che descrive bene uno stare al mondo che nel 1942 il grande filosofo neoidealista non poteva immaginare: quello del “Game” digitale - per dirla con il titolo del fortunato saggio di Alessandro Baricco - alle cui regole è probabilmente impossibile sottrarsi. Piaccia (come a Baricco), o non piaccia, come a una sempre più nutrita schiera di intellettuali di diversa provenienza (dai filosofi ai tecnologi) molto più inclini a denunciare il carattere totalitario, ideologico, se non “religioso”, intrinseco al digitale.
Possiamo sospettare che l’“essere digitali”, che Nicholas Negroponte vide nell’ormai lontano 1995 come una nuova e imprescindibile condizione esistenziale, appartenga alla sfera della necessità e non della contingenza, seguendo ancora le tracce della filosofia, ma per prenderne congedo lungo la strada indicata dallo stesso Negroponte. Oppure possiamo provare a praticare una “resistenza”, una presa di distanza, pescando tra i vecchi arnesi della filosofia per verificare la possibilità, forse residua, di gettare uno sguardo fenomenologico sul digitale, di metterlo “tra parentesi” per coglierne l’essenza da fuori.
La filosofia digitale, scuola di pensiero che data almeno qualche decennio e che oltre Atlantico si è guadagnata il rango di disciplina, ha già risolto il problema: il “da fuori” non ha senso, perché il bit è l’arché, l’elemento fondante della realtà, l’essenza del reale è informazionale… Questo è il mondo di homo sapiens, finora ci eravamo sbagliati, o quantomeno “distratti” per mancanza di strumenti adeguati, (una distrazione lunga quanto la storia del pensiero) fino al risveglio epistemologico che si nutre di silicio.
Ma se tra filosofia e digitale inseriamo un “del”, ecco che il genitivo cambia la natura del rapporto tra i due termini, con l’introduzione di un elemento critico.Ed è quello che tenta di fare l’università di Udine, che sta per attivare il primo master in Italia in “Filosofia del digitale”.
«La filosofia ha il compito di gettare uno sguardo sulla natura di questo fenomeno», spiega il direttore del master Luca Taddio, docente di Estetica nello stesso ateneo, «per poi seguirne e coglierne le varie articolazioni». Le contaminazioni sono inevitabili e opportune. «Ci occuperemo dello studio del cervello attraverso le neuroscienze», prosegue Taddio, «approfondiremo gli strumenti del digitale attraverso lo studio dei big data, della blockchain, dell’intelligenza artificiale…. »
Il master di Udine non ha lo scopo di sfornare brigate di neoluddisti, o schiere di apocalittici asserragliati in improbabili fortini analogici. Al contrario: «La sfida», spiega ancora Taddio, «è quella di creare una nuova figura professionale fornendo gli strumenti concettuali e pratici a coloro che, in particolare dopo un percorso umanistico, intendono entrare in azienda. Una figura che dovrà essere in grado di comprendere le continue trasformazioni che il digitale sta producendo». Ma con gli strumenti della filosofia.
Capire è la parola chiave, al di là delle skill. Ed è una scalata, se è vero, come ammette lo stesso Baricco all’inizio del suo viaggio nel “game”, che si tratta di un mondo «che non sapremmo spiegare», di «una rivoluzione di cui non conosciamo con precisione né l’origine, né lo scopo».
E nemmeno il senso, aggiungerebbe chi - tra gli analisti del digitale - non è per nulla propenso a farsi sedurre dal “game” nonostante tutto, e che non si rassegna a veder naufragare tra i bit i “vecchi” significati, o almeno i modi di pensare nozioni filosofiche o figliate dalla filosofia come verità, mezzi-fini, benessere, autonomia. La sfida accademica contiene giocoforza la domanda sul significato (e l’importanza) di occuparsi del digitale con gli strumenti della filosofia. Ed è una sfida che va ben oltre le aule di un master universitario.
Peter Ludlow, filosofo del linguaggio ed epistemologo statunitense (“Il nostro futuro nei mondi virtuali”, è il suo ultimo libro tradotto in italiano), sembra non avere dubbi: «Dalla sua nascita, 2500 anni fa», osserva, «una delle principali responsabilità della filosofia è stata quella di aiutarci a capire le tecnologie emergenti, a cogliere il loro impatto sulle nostre vite e sulle nostre identità, aiutarci ad affrontare i cambiamenti concettuali che si presentano, ma anche ad anticipare le domande etiche che sorgeranno».
Ma il digitale, una volta diventato il nostro habitat, non porta con sé modificazioni significative dal punto di vista cognitivo, tali da rendere “estranei”, se non obsoleti, i concetti, i sistemi, le forme e modi di pensiero che la tradizione filosofica occidentale ci ha consegnato?
«Certo, il digitale ha già fatto questo», replica Ludlow: «La concezione digitale della cognizione ha cambiato radicalmente la nostra comprensione della mente umana negli ultimi 50 anni. E ora il “social internet” sta modificando nuovamente questa concezione, in modi che ancora non capiamo. Certamente rende obsolete le principali visioni filosofiche. Ma le visioni filosofiche diventano obsolete proprio come le teorie scientifiche».
Per uscire dall’apparente contraddizione Ludlow prova a salvare la filosofia disfandosi della tradizione filosofica. «La critica filosofica del digitale e la filosofia digitale dovrebbero convivere», spiega. «Ci serve un nuovo tipo di filosofia che affronti il digitale seriamente. Il dualismo cartesiano, l’idealismo e il materialismo, le prospettive tradizionali della filosofia della mente, non lo faranno. Non può esserci una critica seria finché la filosofia non si mette al passo». «Questo significa», prosegue il filosofo statunitense», che al momento ci troviamo in una situazione molto pericolosa: la tecnologia sta sfuggendo alla nostra capacità di pensarla in termini teorici. Per la prima volta nella storia umana siamo filosoficamente ciechi sia riguardo al ciò che stiamo facendo, che riguardo alla direzione che stiamo prendendo. Perciò programmi di filosofia del digitale servono con urgenza nelle università».
Luciano Floridi, filosofo dell’università di Oxford dove dirige il Digital ethics Lab, consulente di istituzioni pubbliche europee e non, è uno dei più ascoltati filosofi del digitale. Chiamato da Google a far parte di un comitato di esperti per sorvegliare sugli sviluppi dell’intelligenza artificiale, ne ha raccontato su L’Espresso il fallimento. Ciò a cui di certo non si rassegnerà è il fallimento, l’impossibilità, di affrontare gli sviluppi delle tecnologie digitali (e soprattutto l’impatto che avranno sulle nostre vite) con gli strumenti della filosofia. Ma non ne nasconde le difficoltà.
«Il digitale apre questioni nuove», dice. «Un classico tema è quello della privacy, di cui non c’era traccia nei manuali su cui ho studiato. E reinterpreta importanti questioni classiche, si pensi al concetto di autonomia applicato all’Intelligenza artificiale». Ma dare risposte a queste questioni aperte stando dentro il digitale - secondo il filosofo di Oxford - «è un po’ come chiedere all’occhio di vedere se stesso. Per citare Shakespeare, non è possibile se non in modo indiretto, attraverso la riflessione. E la riflessione che permette di uscire dalla propria condizione e di comprenderla criticamente si chiama filosofia».
Fare filosofia del digitale è difficile, «perché si devono sviluppare gli strumenti concettuali mentre li si utilizza, riparare la zattera mentre si naviga, per citare una famosa analogia di Neurath», spiega Floridi. «Il rischio è di prendere la scorciatoia, magari usando metodologie inadeguate, come la storia della filosofia, oppure analisi che riportano tutto a quadri concettuali inadeguati».
«La grande opportunità», conclude, «è quella di rinnovare la filosofia stessa, che oggi è da interpretare come design concettuale, sia nel senso di comprensione epistemica - per decodificare il presente e i suoi meccanismi - sia nel senso di responsabilità etica, per progettare il futuro e realizzare le opportunità che abbiamo. Insomma, fare filosofia del digitale significa anche fare una filosofia digitale».
L’incrocio tra filosofia e digitale è con tutta evidenza ad alta densità di traffico. E se anche i guidatori più esperti ammettono che non è facile scegliere la strada da imboccare, c’è chi prevede un inevitabile crash. «I saperi tecno-logici, oggettivati sotto forma di apparecchi, generano anche e soprattutto una perdita di sapere nel momento stesso in cui si parla di “società dei saperi”, di “industrie della conoscenza”, e di capitalismo “cognitivo” e “culturale”», scrive il filosofo francese Bernard Stiegler in “Platone digitale”.
Sulla zattera da riparare mentre si naviga, prima dei filosofi ci sono arrivati gli informatici, i cibernetici. Dai quali forse ci aspetteremmo un’alzata di spalle. Per scrollarsi di dosso la filosofia, beninteso. Ma spesso non è così. Non se si tratta di Giuseppe O. Longo, informatico e cibernetico appunto, pioniere in Italia della Teoria dell’informazione e autore di libri come “Homo tecnologicus” e “Il simbionte”, cioè l’uomo integrato dalle sue protesi digitali.
Come altri tecnologi (uno su tutti: Jaron Lanier), Longo sembra più risoluto dei filosofi stessi nell’invocare l’urgenza del pensiero critico, filosofico, di fronte agli sviluppi del digitale, «che hanno e avranno sempre di più ricadute sociali, culturali, etiche…».
La prescrizione di Longo prevede un alto dosaggio: «Più filosofia si fa meglio è», taglia corto. «Perché nel campo delle tecnologie digitali», spiega, «spesso si procede a testa bassa, quello che si può fare si farà, si naviga a vista, si vede una possibilità e ci si tuffa».
E in questa corsa per la corsa, «la riflessione a priori è salutare», secondo Longo. Che conclude: «Una filosofia del digitale sembra appropriata mentre ci avviamo verso un’epoca in cui tutto si potrà fare. E in una società del “tutto è possibile”, in cui la questione del limite sarà cruciale, il recupero del pensiero critico, della riflessione etica, sembrano indispensabili».