Non capisco che cosa ci sia di “divisivo” nelle pietre d’inciampo: chi dividono? I nazisti dagli ebrei? Le persone civili dagli assassini? L’ignoranza arrogante della storia mi sembra, forse perché sto invecchiando, il vero male oscuro dei tempi presenti, la radice del pericolo: perché è sempre stata l’ignoranza del popolo il grande serbatoio di benzina con cui i dittatori hanno dato il mondo alle fiamme.
Inciampare nella memoria è necessario. Siamo abituati a serbare soltanto i ricordi più belli: è umano, ed è un efficace meccanismo evolutivo per tenerci vivi. Se il nostro cervello conservasse soltanto i ricordi brutti, alzarsi la mattina diventerebbe sempre più difficile: e questo vale per le persone come per i popoli, per la mia vita come per la nostra storia.
Ma ogni tanto bisogna anche ricordare le cose brutte, le cose orribili. Un po’ per non farsi trovare impreparati se mai dovessero tornare (e oggi siamo a un’ora incerta), e un po’ perché è l’unica cosa che possiamo fare per le vittime: ricordarci di loro. Nessuna condanna ha mai potuto riportare in vita gli innocenti: invece le pietre d’inciampo ci riescono, perché la memoria riporta in vita i morti.
A Torino, in via Piazzi 3, sono state posate le pietre in ricordo di Alessandro Colombo, di sua moglie Wanda Debora Foa e della figlia Elena, deportati e assassinati ad Auschwitz. È stata una signora che abitava con i genitori in quel palazzo, e che al momento dell’arresto aveva tre anni, Piera Billotti Marinoni, a chiedere la posa delle pietre: e non saprei come ringraziarla per questo gesto insieme umile e straordinario. Alessandro Colombo era infatti il fratello di mia nonna.
Fino a ora sapevo pochissimo di questo zio, se non la sua tragica fine. Per molti anni in quasi tutte le famiglie non si è mai parlato della guerra e neppure della Shoah, e la mia non faceva eccezione. Mio padre mi raccontava a volte di Elena, che aveva un anno meno di lui: insieme si esercitavano al pianoforte.
Questa immagine, l’immagine di due bambini che suonano insieme, è stata ed è tuttora per me l’immagine definitiva, e forse la più angosciante, della Shoah: una bimba ebrea che sarà da lì a poco deportata su un carro bestiame e assassinata appena scesa dal treno, e un bimbo con una mamma ebrea che diventerà mio padre (fino alla fine della guerra vivranno nascosti in una cascina del Vercellese). Avrebbe potuto accadere l’inverso, e io non sarei mai nato: in questo, credo, sta l’impossibilità di farsi una ragione di ciò che è stato, dei motivi e delle cause. Dobbiamo impedire che si ripeta, ma non credo che ne capiremo mai il perché.
In questi mesi ho provato a scoprire qualcosa di più su zio Sandro, grazie all’aiuto del Museo diffuso della Resistenza di Torino, dell’Istoreto, del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e di diversi studiosi e ricercatori, nonché di un cugino svizzero che ha ritrovato un intero album di fotografie: la vita di Sandro, per quel poco che ho potuto ricostruire, è stata una vita normale. Proprio come quella di quasi tutte le vittime.
Il padre di Sandro era un agente di cambio, la madre era figlia di un altro agente di cambio: nato nel 1895, Sandro è cresciuto in una famiglia borghese agiata, bene inserita nel tessuto sociale e civile di Torino, liberale e laica. E fedele al Re: tutti gli ebrei piemontesi, da quando Carlo Alberto nel 1848 concesse loro i diritti civili, erano sinceri e ferventi monarchici.
Non soltanto mia nonna, ma anche una sorella e un altro fratello avranno matrimoni cattolici: l’ebraismo, come in molte altre famiglie, era un tratto culturale e familiare assai più che religioso o “etnico”. Sandro studia in un istituto tecnico e a vent’anni va al fronte. Un fratello poco più grande, Arturo, sottotenente di fanteria, morirà in battaglia sull’Altipiano di Asiago. Quando ho trovato il suo nome nell’Albo d’oro dei caduti ho pensato a quanto possa essere beffardo il destino: un fratello cade nel fiore degli anni per salvare la Patria, l’altro verrà consegnato dalla Patria ai suoi assassini.
Dopo la guerra Sandro avvia un’attività in proprio, ed è un lavoro che mi fa sorridere: imballaggi per dolciumi. Chissà come gli sarà venuto in mente, dove avrà imparato. Un giorno a Torino invitò a colazione il signor Motta in persona - così almeno si racconta in famiglia - e pagò senza indugio il conto, nonostante l’evidente differenza di fatturato fra i due. Non sappiamo se l’investimento si sia poi rivelato fruttuoso. Mi sono fatto di lui l’idea che fosse un uomo che amava la vita, sicuro di sé, generoso e forse anche un po’ sbruffone, sempre molto curato nell’aspetto, scapolo incallito e tombeur de femmes.
E così me lo immagino in una Torino ancora gozzaniana, seduto in un caffè sotto i portici di via Po, mentre prende un vermouth con gli amici, oppure con la sua ultima conquista a passeggio per il Valentino o in una sala da ballo dove si suona il gez, come il regime l’aveva autarchicamente ribattezzato. Una foto lo mostra vestito in modo impeccabile con una sigaretta fra le labbra. Si è sposato soltanto a quarant’anni, e con una ragazza di appena diciotto, Wanda, figlia di un negoziante forse di tessuti e, a detta di tutti, incredibilmente bella. Esattamente nove mesi dopo nasce Elena, la loro unica figlia. Le foto ritrovate li mostrano a Cogne, a Bardonecchia, a Finale Ligure, come ogni famiglia torinese che si rispetti.
La vita di Sandro, come quella di tutti gli ebrei italiani, si spezza nell’estate del 1938, quando il Re che lui aveva servito in guerra firma le leggi razziali di Mussolini. Elena, che ha cinque anni, non potrà più andare a scuola. Nell’Annuario industriale del ’39 la sua azienda c’è ancora: “C.S. - Fabbrica cartonaggi”, e può darsi che abbia potuto lavorare ancora per qualche anno. Ma dopo l’8 settembre del ’43 i repubblichini prendono il potere e i tedeschi arrivano a Torino.
Sandro e Wanda fuggono a Forno Canavese, presumibilmente in un casolare della frazione Milani. Perché siano finiti lassù resta un mistero: ma il cappellano del piccolo santuario dei Milani, don Felice Pol, era legato alle bande partigiane della zona, e dunque potrebbe essere stato lui a organizzare la clandestinità di mio zio. Anche don Felice aveva fatto la guerra, e poi era stato vicecurato nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo, a Torino, in largo Saluzzo: forse, chissà, si erano conosciuti al fronte e a Torino avevano continuato a frequentarsi.
Ma il 7 dicembre 1943, dopo che un aereo di ricognizione aveva avvistato i “ribelli” per colpa della neve appena caduta, arriva a Forno una colonna tedesca di quasi duemila uomini, coadiuvata da forze della Guardia nazionale repubblicana, con l’obiettivo di annientare la banda partigiana “Monte Soglio”: 18 patrioti saranno catturati il 9, torturati per una notte intera e fucilati di fronte alla popolazione tenuta in ostaggio nel cortile della Casa Littoria
L’8 dicembre i tedeschi rastrellano il paese e scoprono così mio zio: «Verso mezzogiorno», racconta un testimone, «portarono nel cortile un uomo, forse un ebreo, che fu picchiato e schiaffeggiato in nostra presenza. Non so che fine abbia fatto, perché non l’abbiamo più visto». È questa l’ultima testimonianza esistente su mio zio, l’ultimo fotogramma che lo coglie nel momento esatto in cui passa dalla vita alla morte: e da quando l’ho scoperta continuo a rileggerla e a rileggerla, e non riesco a cancellare l’immagine di questo tranquillo borghese di quasi cinquant’anni, patriota, piccolo imprenditore, fedele al Re e alla patria che aveva servito al fronte, con una moglie giovane e bellissima e una figlia che suonava il pianoforte - ora trascinato fuori di casa e preso a schiaffi e a pugni e a spintoni, davanti a tutti, soltanto perché ebreo.
Sandro e Wanda furono portati alle Nuove di Torino il 9 dicembre e successivamente trasferiti a Milano, nel carcere di San Vittore. Il 30 gennaio 1944 furono caricati sui carri piombati in partenza dalla Stazione centrale per Auschwitz, dove arrivarono il 6 febbraio. Su quel convoglio viaggiavano 605 ebrei, e soltanto venti tornarono a casa: fra questi, Liliana Segre. Così, ho riletto con un’emozione mai provata e piena di angoscia il racconto di quel viaggio nel libro scritto con Enrico Mentana: «Ci scaricarono davanti ai binari di manovra. Il passaggio fu rapidissimo. SS e repubblichini, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame. […] Ora ci ritrovavamo nel buio del vagone, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i nostri bisogni».
All’arrivo, prosegue Liliana Segre, «subentrò il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci buttarono dinanzi agli occhi assuefatti al buio la visione dell’inferno. Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio, ubriachi».
Wanda e Sandro, come tutte le coppie, furono separati all’arrivo: lei non superò la selezione e fu portata subito alla camera a gas, Sandro invece ebbe meno fortuna e riuscì a sopravvivere per dieci mesi nelle condizioni disumane che i sopravvissuti hanno avuto il coraggio di descriverci. La durata media della vita ad Auschwitz era di tre-quattro mesi, e mi chiedo che cosa abbia fatto o avuto Sandro di speciale: forse un qualche incarico particolare, una sana e robusta costituzione, o forse è stato soltanto il caso. Morì il 30 novembre, quando le camere a gas erano già state smantellate e l’Armata rossa avanzava rapidamente: morì dunque di dissenteria, o di tifo petecchiale, o di tubercolosi, o di sfinimento, o di botte, o con un colpo alla nuca, o chissà. Non ce l’ha fatta per meno di due mesi: i russi entreranno nel campo il 27 gennaio 1945.
E la piccola Elena? Qui il mistero è più fitto, le poche testimonianze sembrano contraddire i ricordi di famiglia: ma con l’aiuto del Cdec ho potuto ricostruire una storia, se non certa, assai probabile. Prima di nascondersi a Forno, Sandro affida la figlia all’Istituto Charitas, la cui prima sede era a due portoni di distanza dal suo appartamento alla Crocetta.
L’Istituto Charitas, che nel Dopoguerra passò sotto la gestione delle Suore Minime, era stano fondato nel 1909 “pel ricovero temporaneo, talora anche di poche ore, di fanciulli sani, non discoli, in stato di momentaneo abbandono”, come recita una guida di Torino del 1928. Dal ’42, quando l’Istituto già aveva traslocato in corso Quintino Sella, lo dirigevano Luigi e Rita Vinay, evidentemente valdesi. In Piemonte ebrei e valdesi sono sempre andati molto d’accordo, e dunque oltre al vicinato anche un’affinità più profonda potrebbe aver influito nella scelta di mio zio. Che dunque parte per Forno con il cuore sollevato, perché è certo che sua figlia sia al sicuro.
Invece il 23 (o 25) marzo del ’44 le SS arrivano all’Istituto Charitas, che da un anno ospitava anche i bimbi e le suore di un asilo bombardato, e prendono Elena. Mia nonna disse sempre che era stata venduta, ma non so se ne avesse le prove. Col tempo si abituò alla morte del fratello, perché in fondo in guerra possono morire anche quelli che non c’entrano niente, ma non riuscì mai a farsi una ragione della delazione che portò all’assassinio della bimba. Un ebreo valeva allora 5000 lire, più o meno quanto guadagnava un operaio in quattro mesi.
Elena non aveva ancora compiuto undici anni quando fu presa. Ma soprattutto - è questa l’immagine che più mi sconvolge - si ritrovò sola, completamente sola, ad affrontare l’inferno. Il 27 marzo fu trasportata a Fossoli, il campo di transito italiano vicino a Carpi, e il 5 aprile salì sui vagoni per Auschwitz. La composizione di quel convoglio è particolarmente disperante: con lei c’erano altri 32 bambini - e però ho anche pensato: almeno avrà fatto amicizia, forse avrà anche riso, e mi è venuta in mente La vita è bella - e 139 anziani arrestati alla Casa di riposo israelitica di Mantova.
Perché non li hanno ammazzati tutti subito? Che senso ha trasportare vecchi e bambini attraverso mezza Europa, nel caos della guerra, per poi ucciderli all’arrivo? Elena, come tutti i bambini di quel convoglio e come quasi tutti i bambini arrivati ad Auschwitz (a meno che non fossero gemelli o non incuriosissero per qualche altra ragione il dottor Mengele), fu portata alla camera a gas appena scesa dal treno, il 10 aprile 1944. Nessuno dei due poteva saperlo, ma il suo papà era oltre i reticolati, a qualche centinaio di metri appena: così vicini, così ineluttabilmente lontani.
Quando ho parlato di zio Sandro e della sua famiglia ai ragazzi di due terze medie di Torino, la III G dell’IISS Calamandrei e la III G della Calvino, che stanno facendo una ricerca su di loro con l’aiuto del Museo diffuso e dell’Istoreto (a riprova che la scuola italiana può essere magnifica), ho insistito su un punto soprattutto: gli sventurati erano persone normali, normalissime, direi persino banali. Non avevano fatto nulla di speciale, o per meglio dire nulla di diverso da quello che fa la stragrande maggioranza della gente. Siamo noi a rendere unica la nostra vita: vista da fuori, è quasi sempre come tutte le altre. Eppure dentro una vita così ovvia può all’improvviso spalancarsi, letteralmente, l’inferno. Senza motivo, senza preavviso, senza ragione.
Non voglio dire che se hai la pelle di un altro colore o parli un’altra lingua - zio Sandro credo parlasse soltanto piemontese - meriti gli insulti o le botte: vorrei dire invece alle persone normali come lo era mio zio, che magari mostrano indifferenza di fronte alle discriminazioni e all’intolleranza perché, appunto, pensano sia un problema di chi ha la pelle di un altro colore, ebbene, proprio come a persone come loro, normali e benpensanti e tranquille, è capitato da un giorno all’altro di dover fuggire, nascondersi, essere presi e picchiati per strada, e poi chiusi in un carcere e poi fatti viaggiare per una settimana su un carro bestiame e poi denudati nel freddo implacato dell’inverno polacco e poi spinti col calcio del fucile in una camera a gas. Per questo non dovremmo mai essere indifferenti, ma al contrario ben svegli per saper cogliere ogni minimo segnale di discriminazione: per egoismo bisogna vigilare: perché l’intolleranza è un fuoco che divampa incontrollato persino da chi l’ha appiccato, e potrebbe bruciare chiunque di noi.