Odio razziale. fratture sociali. opinione pubblica radicalizzata. Chiunque sarà, il presidente dovrà governare un paese spaccato al suo interno come mai nella storia

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Se tutto andrà come deve andare, mercoledì 4 novembre l’America si risveglierà con un nuovo presidente. Dopo una campagna elettorale interminabile (Joe Biden ha annunciato la sua candidatura il 25 aprile 2019, Donald Trump l’ha fatta in modo quasi permanente dallo Studio Ovale), dopo aver raccolto (e speso) una cifra record di oltre 3 miliardi di dollari, il vincitore della sfida più anomala della storia Usa dovrà adesso, una volta conquistata la Casa Bianca, fare i conti con un immediato futuro fatto di imprevisti, scelte difficili e una sola certezza: che dovrà governare gli United States più divisi nell’ultimo secolo.

Chiunque vincerà dovrà fare i conti con l’altra metà (o quasi) dell’America.

Joe Biden, che arriva all’Election Day da favorito (per i sondaggi e anche per i bookmakers), ha promesso - lo ha ripetuto ogni giorno in ogni intervento, su Twitter, nei dibattiti tv - che sarà «il presidente di tutti gli americani». Frase fatta e retorica, che si dice sempre e quasi sempre non è vera. Ancora di meno lo sarà se il 20 gennaio sarà lui a giurare come nuovo “Commander in Chief” della superpotenza Usa. Perché si troverà di fronte il popolo di The Donald, decine di milioni di persone che - dopo un decennio di impoverimento economico e di frustrazioni - in questi ultimi quattro anni si sono sentiti rappresentare da uno di loro (non importa che non lo sia affatto), da un bianco, da un uomo che mantiene (a volte) le promesse, che dalla Casa Bianca si è impadronito del vecchio Grand Old Party e lo ha trasformato a sua immagine. Con il partito che fu di Abraham Lincoln, Teddy Roosevelt e Ronald Reagan il Gop di oggi ha poco o nulla a che vedere, ma è molto distante anche da quello di George W. Bush del “compassionate conservatism” e dei neocon, diverso perfino dal Tea Party di dieci anni fa.

Con un’America così polarizzata politicamente - per trovare qualcosa di simile occorre tornare agli anni Sessanta o forse ancora più indietro - in cui la destra populista e la sinistra radicale continuano a guadagnare terreno (anche elettorale) rispetto alle ali moderate dei due tradizionali partiti Usa, anche una “blue wave”, la vittoria netta su cui puntano i democratici, non basterebbe da sola a garantire a Biden un facile mandato per i prossimi quattro anni. Gli eventi di questo sconvolgente 2020 avranno un peso enorme anche nel prossimo futuro. La pandemia dovuta al coronavirus ha già fatto 230mila morti e 9 milioni di contagiati, l’uccisione dell’afro-americano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis ha dato il via al più grande movimento anti-razzista dai tempi delle marce di Martin Luther King, i social media sono diventati la nuova frontiera dello scontro sociale e culturale, spesso sfuggendo di mano anche ai propri creatori e la rete è una terra di nessuno troppo frequentemente condizionata da fake news, odiatori professionisti e hacker stranieri.

Se sarà The Donald a guidare l’America per un secondo mandato, vincendo di nuovo contro ogni pronostico (e questa volta sarebbe ancora più clamoroso) avrebbe meno problemi del suo avversario. Potrebbe continuare nel solco che ha già tracciato nei suoi primi quattro anni alla Casa Bianca, con il suo programma di America First: inasprire il conflitto con la Cina di Xi Jinping (magari con l’aiuto del Cremlino di Putin), indebolire l’Europa, opporsi a qualsiasi accordo sul clima, lasciare mano libera alla potente “lobby” del petrolio, costruire (questa volta veramente) il Muro con il Messico, dare un giro di vita all’immigrazione clandestina (che continua anche con lui in carica), aumentare i poteri (e gli armamenti) della polizia. Quattro nuovi anni all’insegna del Law&Order di nixoniana memoria, pronto anche a mobilitare le milizie dei “suprematisti bianchi” in eventuali scontri di piazza.
Se dovesse rivincere nessuno sarebbe probabilmente in grado di fermarlo. Non un partito democratico di nuovo nell’angolo dell’opposizione, la cui eventuale nuova sconfitta sarebbe veramente epocale. Non una Corte Suprema, che con la conferma della candidata di The Donald Amy Coney Barrett (avvenuta lunedì scorso al Senato) può garantire con una maggioranza a prova di defezioni (6 Giudici Supremi repubblicani contro 3 democratici) qualsiasi nuova legge che Trump voglia varare. Corte che resterà repubblicana per decenni (vista l’età dei giudici legati al Grand Old Party e il mandato a vita) e che può azzerare tutte le conquiste dei diritti civili degli ultimi decenni, dal diritto di aborto ai matrimoni gay.

Nel caso, probabile, che non vincesse, cosa farà Donald Trump? Il capo dello staff della Casa Bianca ha garantito che se il responso delle urne sarà negativo il presidente uscente accetterà il risultato “concedendo”, come da secolare tradizione, la vittoria al suo avversario. A meno di un testa a testa (oggi poco ipotizzabile) difficile che dopo il 4 novembre si inneschino quei meccanismi che tutti temono: ricorsi, riconteggi, scontri di piazza, presidenza affidata a una decisione della Corte Suprema (c’è il precedente Bush-Gore del 2000). The Donald e i suoi, come del resto nel 2016, la sconfitta l’hanno messa in conto e dietro le quinte stanno già preparando il prossimo scenario, quello che vede l’attuale presidente Usa diventare a tutti gli effetti il capo dell’opposizione.
Un “Commander in Chief” che esce sconfitto dai cancelli della Casa Bianca non può ovviamente rientrare in politica e del resto Trump politica attiva non l’aveva mai fatta, almeno fino a quando ha deciso di presentarsi (era il 2015) come il candidato dell’antipolitica. Le voci che circolano con più insistenza nei palazzi di Washington e nelle riunioni dei grandi finanziatori repubblicani sono piuttosto concordi: il futuro di The Donald è nella televisione.
I motivi sono diversi. Il suo narcisismo, ama troppo i riflettori nazionali per rinunciarvi; da tempo è ossessionato dall’avere una tv via cavo tutta per sé; il suo brand che è poi il suo nome e che ha fatto prosperare le sue aziende - soprattutto da quando siede nello Studio Ovale - rischia con la sconfitta elettorale di avere un contraccolpo; nei prossimi anni dovrà ripagare 400 milioni di debiti e le royalties che continua ad avere per la sua brillante carriera nel mondo dei reality tv si vanno via via esaurendo. Soprattutto muore dalla voglia di avere una sua personale tv, fatta a sua immagine e somiglianza. Perché neanche FoxNews gli basta più.

Solo gli osservatori più attenti hanno fatto caso a come negli ultimi mesi in Trump sia cresciuta nei confronti della rete “all-news” del suo amico Rupert Murdoch una certa, malcelata, insoddisfazione. Il primo segnale di allarme arriva a fine aprile, ovviamente via Twitter («@FoxNews non capisce cosa sta succedendo»), seguito ben presto da un altro («chi guarda @FoxNews in numero record lo fa grazie al presidente Donald Trump») e poi da altri ancora («ora sono arrabbiati, vogliono un’alternativa e la voglio anch’io»).

Ha iniziato sempre più spesso a rimpiangere Roger Ailes - il potentissimo fondatore di Fox travolto dal movimento #MeToo e morto nel 2017 - lamentandosi con Murdoch e i figli, senza troppo successo, dei giornalisti della rete (considerata da tutti megafono della sua propaganda ma da lui evidentemente non abbastanza) e invitando i suoi fan a sintonizzarsi su One America News o su Newsmax, televisioni che sono apertamente di destra radicale. NewsMax è gestito da Chris Ruddy, un amico di lunga data di Trump, Oan, arrivato nel mondo della televisione via cavo relativamente di recente (ha iniziato le trasmissioni nel 2013), è guidato da Robert Herring, accanito difensore del presidente Usa da quando ha deciso di scendere in campo.

Reti militanti, ma con un pubblico di nicchia, perché il gorgo dell’America conservatrice resta sintonizzata su FoxNews. The Donald è convinto - sempre stando ai “rumors” che circolano nel mondo politico della capitale e in quello finanziario di Wall Street - che con lui alla testa (avrebbe anche proposto di rinominare Oan “Trump News Network”) può battere il potente rivale. Chi non crede alle voci sostiene che Trump non ha nulla da guadagnare come nuovo tycoon televisivo. Chi lo conosce meglio sostiene invece che è proprio il suo sogno. Perché una televisione fatta bene - l’attuale presidente pescherebbe sicuramente tra i migliori professionisti di FoxNews e non solo - potrebbe rendergli molto in termini economici, perché una televisione con il suo nome soddisferebbe il suo ego, soprattutto perché da lì potrebbe diventare il vero capo dell’opposizione, continuando a plasmare il Grand Old Party secondo i suoi desiderata.

Nella storia degli Stati Uniti ci sono stati diversi momenti di crisi, ma quelli più gravi, dicono gli storici, sono più o meno due per secolo. Samuel P. Huntington, il politologo di Harvard famoso per il saggio “Lo scontro delle civiltà”, li ha fissati a circa sessanta anni l’uno dall’altro e in uno scritto del 1981 in cui parlava dei radicali cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti negli anni Sessanta - Kennedy, Luther King, la guerra del Vietnam, il ’68 - sosteneva che il prossimo sarebbe avvenuto nel secondo o terzo decennio del Ventunesimo Secolo, cioè oggi. Se Joe “Sleepy” Biden entrerà alla Casa Bianca è avvisato.