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dicembre, 2020

L’Albania dei sogni infranti tra i bunker di Hoxha e i grattacieli degli oligarchi

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Costruzioni selvagge, corruzione, turbocapitalismo. A trent’anni dalla fine del regime comunista il Paese è nelle mani di pochi. E tutti gli altri sognano di fuggire

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Spaç, nel nord dell’Albania. Un ex campo di lavori forzati dell’epoca comunista. Le baracche, dove i prigionieri politici all’epoca hanno trascorso la parte più difficile delle loro esistenze, stanno per crollare. «Oggi», racconta Fatos Labonja, «restano delle rovine malandate», la miniera «che dovrebbe essere un luogo di memoria come Auschwitz o Dachau», sostituita da una costruzione nuova, una grande fabbrica. Proprio di fronte a quelle baracche dove i prigionieri abitavano. E dove Labonja, ex prigioniero politico ed intellettuale albanese, è stato costretto a vivere per tredici anni. Altri quattro li ha passati in isolamento dentro un carcere.

«Non una targa in memoria di chi vi ha passato anni bui», spiega all’Espresso, ripensando a Spaç come uno dei luoghi più tragici della sofferenza durante il regime comunista. «Dovrebbe essere sito di pellegrinaggio per i giovani, per capire quello che è stato. Ma usano la miniera per tirare su un po’ di soldi». Come Spaç, anche la raffineria di Ballsh, vicino la città di Fier, a sud del paese, non porta nessun segno del campo di lavori forzati che fu. La raffineria, messa su dai lavori forzati degli oppositori al regime, oggi produce ricchezza per i suoi proprietari. È stata privatizzata. Ed è questo il volto del potere nuovo. «Questi luoghi di sofferenza potrebbero essere la metafora di come è l’Albania oggi e degli albanesi in relazione al nostro passato», aggiunge Labonja, denunciando il passaggio brusco da un regime autoritario a un capitalismo selvaggio.
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Trent’anni fa, nel dicembre del 1990, le proteste studentesche a Tirana segnarono l’inizio della fine del regime comunista. Il piccolo paese dei Balcani che si affaccia sul Mar Adriatico e il Mar Ionio, di fronte alle coste pugliesi, era stato completamente chiuso al mondo per oltre 45 anni. Il suo dittatore Enver Hoxha, ossessionato dalla paranoia di un attacco nucleare, aveva rotto i rapporti perfino con gli altri paesi dell’Unione Sovietica.

La città di Scutari, nel nord del paese, aveva cominciato a sollevarsi contro il regime l’anno precedente. Ma l’Albania era talmente isolata che neanche la caduta del Muro di Berlino fece subito eco come nell’est Europa. Fu quel dicembre ’90 a Tirana il punto di non ritorno per la liberazione. Poco dopo, a febbraio, verrà abbattuta la statua di Hoxha, al centro della piazza Skanderbeg, tutt’oggi fulcro della vita della capitale. Un momento di gioia immensa e di grandi speranze. Il sogno di poter costruire un’Albania nuova.

Quella piazza e i dintorni oggi ci parlano di un’altra realtà. Dalla speranza di rinascita, l’Albania è caduta presto sotto una nuova ombra. Sono i grattacieli che si elevano a perdita d’occhio - e sempre più sono in costruzione - a sottrarre aria e luce ai suoi abitanti, portando all’abbattimento di case storiche, alla distruzione di luoghi di memoria. E tutto questo per fame di guadagni o per ripulire il denaro del crimine organizzato. Anche la torre dell’orologio e la moschea, simboli storici della città, presto verranno seppelliti dall’ombra dei grattacieli.

L’ultimo grande abbattimento è stato nel 2020: il Teatro Nazionale d’Albania, Teatri Kombëtar, costruito durante l’occupazione fascista in stile futuristico. La demolizione giustificata come disfacimento di un simbolo di epoca coloniale. Così il valore storico del patrimonio architettonico è rimpiazzato dal prezzo del migliore offerente. «Io lo considero fascismo economico», commenta Labonja. «Un piccolo paese in pugno a poche persone che controllano l’economia, i media, lo Stato, e riducono le persone in individui costretti a sopravvivere». Che gli albanesi non sopportino di stare al gioco degli oligarchi locali, lo dicono i dati: il 56% della popolazione desidera lasciare il paese. L’indice della felicità dell’Onu, invece, mette l’Albania del socialista Edi Rama, primo ministro dal 2013, al tredicesimo posto tra i paesi più corrotti al mondo.
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In questo turbine di costruzioni e corruzione, non distante dalla grande piazza Skanderbeg, si apre ai visitatori - albanesi e più spesso stranieri ­­- uno dei bunker simbolo del vecchio regime, trasformato in museo. Si chiama Bunk’Art 2 ed è il tentativo, insieme al Bunk’Art 1 situato invece in periferia, di non far scomparire le tracce della dittatura. «Col trascorrere degli anni gli unici pezzi di comunismo visibili erano le migliaia di bunker sparsi come funghi di cemento», spiega Carlo Bollino, giornalista e ideatore di Bunk’Art 1 e 2 a Tirana.

«Ho voluto realizzare un’esposizione video museale all’interno di due imponenti bunker antiatomici. Nei primi mesi di apertura nel 2014, Bunk’Art 1 è stato visitato da oltre 70 mila albanesi. Un fiume di uomini, donne, bambini che si riversò tra quei tunnel scavati in gran segreto a due passi dalle loro case. Poi col passare degli anni i visitatori albanesi si sono diradati e ora, al di là di qualche anziano e di molte scolaresche, i visitatori principali sono i turisti». La pandemia da Covid-19 ha fatto contrarre del 40% gli ingressi estivi, specchio del calo del turismo nel paese, ma ha anche ridotto le visite di studenti. «Una volta un bambino delle scuole elementari ha chiesto ad una nostra guida chi fosse Enver Hoxha!», conclude Bollino, convinto della necessità per le nuove generazioni di re-incontrare la Storia, anche attraverso i due Bunk’Art.

Nei ricordi degli albanesi in Italia, i bunker fanno parte della memoria dell’infanzia. Rudi ha 29 anni e vive in Italia da 20. «Vicino al paesino al confine della Macedonia dove sono nata ho il ricordo di mio zio minatore che in quei bunker trovava riparo dal sole durante la pausa pranzo». Un’immagine anche della dura povertà che sua mamma tuttora rievoca. Oggi, da poco laureata a Milano, Rudi guarda con ottimismo al futuro dell’Albania. «I miei cugini là mi dicono che ci sono opportunità e, visitando da turista il mio paese natale, la vedo in maniera diversa dai miei genitori», che non tornerebbero mai a viverci. Neanche lei ci tornerebbe, ma sente il desiderio di riscoprire il suo paese, con tutti i pregi e i difetti.

Chi invece ci vive, prova a resistere e mantenere la bellezza che c’è. Come il regista Xhemal Mato e la moglie pedagogista Erleta Celmeta che nella magnifica baia di Porto Palermo, sul mare cristallino del sud del paese, hanno costruito un ecovillaggio fatto di bungalow e materiali riciclati. «Temiamo che anche questo paradiso incontaminato possa essere comprato per costruire mega alberghi di lusso», afferma Mato. «Per ora resistiamo al cemento dell’abusivismo edilizio con le nostre casette di legno e pochi turisti appassionati di natura e mare. Vogliamo proteggere l’ambiente e l’ecosistema, così come far conoscere gli edifici storici vicini, una sfida difficile nel nostro paese».

Lo stesso vale per Stela e Elton Hatibi, proprietari del café-libreria E për 7 shme a Tirana. La vecchia casa di famiglia con cortile interno - sopravvissuta a 90 anni di Storia - è un punto di riferimento per studenti e letterati. Non a caso, il café aperto nel 2004 prende il nome da una rivista letteraria nata negli anni Novanta, dopo la fine del regime. Stela - nome ispirato all’Italia «perché durante il regime comunista mia madre ascoltava di nascosto la radio italiana» - racconta degli studenti universitari di Tirana che vanno a preparare gli esami nel loro café. «Oltre ai libri, ci sono vecchi utensili, tappezzeria e pezzi di artigianato locale», puntualizza, soddisfatta.

«Un tempo organizzavamo letture di poesie, mostre, proiezioni di film», prosegue il marito Elton, con una formazione da storico. «Oggi ci sono tanti bar e poco spazio per la cultura. La città soccombe sotto l’aggressività dell’edilizia». Ma Elton e Stela mettono molta passione nel loro lavoro e non hanno che da imporsi un po’ di ottimismo per andare avanti: «Ad aprile prossimo ci saranno le elezioni, non abbiamo fiducia che possa cambiare la classe politica al potere. Ma vorremmo continuare il nostro lavoro e credere nelle nuove generazioni» che vogliono costruire ponti tramite l’arte e la cultura. Come il nome del loro café E për 7 shme, che in albanese significa «qualcosa che cambia, che prende forma, si adatta, fatta a posta per te», così loro sperano che, a trent’anni dalla fine del regime, il paese possa nuovamente rinascere e darsi una forma nuova, adatta ai suoi cittadini disillusi ma mai rassegnati.

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