Il supermartedì ha ribaltato le primarie democratiche. Con la macchina del partito che ha costruito un efficace cordone attorno a Bernie. Esclusa di fatto dalla corsa la Warren, catastrofico esordio di Bloomberg che potrebbe già ritirarsi

Joe Biden
«Uno dei più grandi ritorni politici della storia recente americana»: così Kate Bedingfield, strettissima collaboratrice di Joe Biden, ha pubblicamente esultato quando a mezzanotte (ora locale) si è delineata la vittoria dell'ex vicepresidente anche nel Texas, il secondo Stato più grande tra quelli del super martedì.

Che Bernie Sanders si prendesse la California era scontato, quindi era proprio sull'incerto Texas che Biden puntava, oltre che sul resto degli stati del Sud dove pure ha fatto man bassa, con punte quasi bulgare in Alabama e percentuali altissime in Arkansas e Virginia. Ma l'ex numero due di Obama si è preso a sorpresa anche stati del nord come il Massachusetts, dove ha umiliato la “padrona di casa” Elizabeth Warren, arrivata terza perfino lì.

La notte del super tuesday ha quindi ribaltato le previsioni. E ci ha dato un quadro molto più chiaro sulle primarie dem rispetto a solo una settimana fa.

Intanto la corsa adesso è a due, Biden contro Sanders. Sono invece spariti dalla scena - dopo Pete Buttegieg e Amy Klobuchar - anche Elizabeth Warren e soprattutto Mike Bloomberg, il cui catastrofico risultato ovunque è stato pure punteggiato dall'ironica vittoria solo nelle Samoa americane, due atolli in mezzo al Pacifico che non sono nemmeno propriamente uno Stato e hanno in tutto 50 mila abitanti.

La brevissima parabola di Bloomberg verrà probabilmente studiata all'università: non si era mai visto un candidato spendere così tanto per un risultato così scarso. Anche se, in verità, le sue pessime performance negli ultimi dibattiti televisivi facevano presagire che qualcosa sarebbe andato storto. La buona notizia, per la democrazia, è che non sempre le elezioni si possono comprare.

Diverso il discorso per Warren: la “secchiona” del partito democratico aveva avuto momenti di grande successo nei sondaggi in autunno, ma poi non ha saputo trasmettere la passione emotivadel suo rivale politicamente più vicino, cioè Sanders, che quindi si è preso tutta l'ala più di sinistra dell'elettorato dem.

Il cammino di “zio Bernie” però a questo punto si fa in salita. Non ha solo perso il Texas e altri Stati (in alcuni dei quali era dato favorito), ma ha anche vinto con uno scarto più basso del previsto in California.

Questa frenata lo danneggia per la particolarità della sua campagna, tutta basata sull'entusiasmo degli attivisti, sul coinvolgimento emotivo dei giovani, sul sogno di ribaltare il vecchio establishment del partito: e quindi sul finanziamento “grassroots”, dal basso, con centinaia di migliaia di microdonazioni da pochi dollari ciascuna (slogan del crowfunding: “Non io. Noi”). Ora, senza le ali dell'euforia, tutta questa spinta - anche economica - rischia di rallentare.

La questione dei soldi si ribalta - ma in senso favorevole - pure per Biden: entrato in corsa con soli sette milioni di dollari in cassa, adesso vede convergere su di lui i finanziamenti di molte lobby democratiche spaventate da Sanders, a partire dalla Silicon Valley che in primo tempo aveva puntato su Buttigieg. Lo stesso Bloomberg - per il quale girano voci di un possibile ritiro - potrebbe devolvere a Biden parte delle robustissime risorse che aveva stanziato per la sua campagna personale.

Già nei giorni subito precedenti il Super Tuesday, Biden aveva ricevuto cifre altissime dai cosiddetti “megadonors”, cioè privati molto ricchi, aziende e appunto lobby. La settimana scorsa, ad esempio, solo in un giorno gli erano arrivati 5 milioni di dollari da spendere proprio in vista del voto di martedì.

Ed è questo il combinato disposto che ieri ha funzionato: il ritiro degli altri due candidati centristi (Buttigieg e Klobuchar), il compattamento della macchina del partito (la “ditta”, si direbbe da noi) impaurita dal corpo estraneo Sanders, il lavoro a volte oscuro a volte trasparente in favore di Biden di notabili dem come il potente senatore mormone Harry Reid, la sua collega ex militare Tammy Duckworth e l’ex astro nascente Beto O'Rourke, molto influente nel Texas che ieri ha scelto Biden. Insomma il famoso establishment del partito, quello che vede Sanders come autore di un’opa ostileda fermare - tanto che nei giorni scorsi si è parlato diuna vera e propria “coalizione Stop Bernie”.

Ma se i potenti del partito democratico oggi tirano un sospiro di sollievo, chi guarda più avanti tra i dem nutre anche qualche timore: ad esempio, quello di un disinvestimento nella politica da parte dei giovani progressisti mobilitati da Sanders e che a novembre, se Biden vincesse le primarie, diserterebbero in gran parte le urne.

È questo il principale problema di un elettorato così diviso al suo interno (politicamente e generazionalmente) da avere sempre la coperta troppo corta: con Sanders candidato si raffredderebbero i moderati “maturi”, con Biden i giovani di sinistra.

Il tutto mentre Trump ha passato la notte a twittare post sarcastici per maramaldeggiare sulla sconfitta di “Mini Mike” Bloomberg e “Pocahontas” Warren e mentre negli Stati Uniti si inizia a parlare molto seriamente del Coronavirus (un centinaio di contagiati accertati e una decina di morti).

Le prime mosse di Trump contro l’epidemia non sembrano convincere molto l’opinione pubblica: prima ha proposto di stanziare 2,5 miliardi per l’emergenza e solo dopo le dure reazioni dei democratici ha accettato la loro richiesta di alzare la cifra a otto miliardi; poi ha delegato la lotta contro il virus al suo vice Mike Pence, che ha inaugurato la sua task force con una seduta di preghiera; quindi si è affidato ai potentissimi industriali di Big Pharma e ha lasciato trapelare l’idea di servirsi di una legge emanata ai tempi della guerra in Corea - il Defense Production Act- per incrementare la produzione di mascherine (un mercato che negli Usa è appannaggio di due sole corporation, 3M e Honeywell).

Infine, con classica mossa demagogica, ha devoluto alla causa centomila dollari suoi personali, tratti dall'appannaggio presidenziale a cui The Donald - pur ricchissimo di suo - non ha mai rinunciato.

Ma più che del virus in sé, Trump ha paura delle sue possibili conseguenze economiche: dopo aver sbandierato per mesi i successi della Borsa, per lui sarebbe devastante presentarsi a novembre con un Paese tra le ombre della recessione. E quale che sia il suo avversario, è probabilmente sull'economia che si giocherà la rielezione a novembre.