Ingressi sbarrati, sale vuote, capolavori negati. Ma ora i templi dell'arte si preparano a una graduale riapertura. Da Brera agli Uffizi, da Capodimonte alla Galleria Borghese, le proposte dei superdirettori

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Nel 2019 abbiamo avuto 417 mila visitatori. Nel 2020 sarà difficile arrivare a 200 mila, considerando la chiusura di marzo e aprile, e ipotizzando un calo del 50 per cento da qui a fine anno». James Bradburne dirige un simbolo internazionale dell’eccellenza artistica, la Pinacoteca di Brera, nella metropoli simbolo internazionale dell’emergenza italiana. «Questa pandemia non ha precedenti, così come le drastiche misure per contenerla. Solo il tempo dirà se fosse giustificata la quasi distruzione dell’economia globale».

Dall’8 marzo i musei italiani si sono adeguati al Dpcm che ha chiuso il Paese contro la diffusione del COVID-19. Il divieto di «ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico» ha svuotato così le sale delle grandi collezioni d’arte. Bradburne quantifica in un milione di euro le perdite per il 2020 degli incassi di biglietteria, da sommare ai 500 mila euro in meno provenienti dagli eventi. In più c’è la questione degli sponsor, che vale per qualunque istituzione culturale: difficile attirare, in questo frangente, le erogazioni liberali che dal 2014 sono agevolate da un credito d’imposta del 65 per cento. Difficoltoso trovare chi risponda allo slogan dell’Art Bonus: «Diventa anche tu un mecenate». Bradburne lo conferma: «Gli sponsor, piuttosto comprensibilmente, stanno indirizzando la loro generosità verso i servizi d’assistenza sanitaria». A fare eccezione nel panorama sono le Gallerie degli Uffizi, grazie alle offerte già arrivate dall’organizzazione “Friends of the Uffizi Galleries”.

Il filo interrotto delle donazioni è solo una delle conseguenze della pandemia alle quali non viene da pensare immediatamente. Un’altra riguarda i limiti alle attività di manutenzione. La Galleria Borghese a Roma e il Museo e Real Bosco di Capodimonte a Napoli hanno dovuto interrompere la manutenzione straordinaria. Alle Gallerie degli Uffizi i ranghi ridotti costringono a svolgere solo una parte dei lavori straordinari. Diverso è il caso di Brera, che ha al suo interno un laboratorio di restauro – se si rilevano problemi, può rivolgersi ai propri restauratori senza chiamare reparti esterni. Scegliendo di puntare sulle collezioni permanenti e perciò non ospitando mostre dal 2015, Brera è anche protetta, rispetto ad altre istituzioni, da un’ulteriore criticità: l’incidenza del Covid-19 sul sistema di prestiti delle opere. Bradburne va oltre i disagi del presente: «Il modello di business della mostra di massa “blockbuster” sarà gravemente minacciato dalle restrizioni post-virus, il che significa che molti musei dovranno ripensare la loro dipendenza dal richiamo di grandi mostre».

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Se il lockdown è una scure sulla mobilità, una città che si è votata al turismo come Firenze non può che risentirne. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, spiega che all’appello per il 2020 - considerando la chiusura da marzo a maggio - mancano già dieci milioni di euro. Fare conti del genere però, secondo Schmidt, non è la priorità in questo momento. E tornare indietro non è la soluzione: «Questa crisi offre, nel disastro totale, un’occasione da non perdere: quella per ripensare musei e turismo. Le città d’arte non possono più reggere il turismo di massa degli ultimi anni, che seguiva i ritmi accelerati delle nostre esistenze e ha cannibalizzato le stesse città d’arte».

Anche per Sylvain Bellenger, direttore di Capodimonte, bisogna leggere la cesura in una prospettiva ampia, raccogliendo il più profondo allarme che risuona nella contingenza: «I danni sono ancora difficile da calcolare. Ma questa crisi rappresenta anche un’accelerazione della storia: è la prima allerta planetaria sull’urgenza di cambiare il nostro modo di gestire la natura. Le prossime crisi saranno sempre più gravi se questo venisse dimenticato, oltre che dai politici, da tutti i cittadini e dai responsabili delle grandi istituzioni culturali, incaricate di portare avanti i comuni valori di educazione e di civiltà».

Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, condivide la lettura di una sfida che riguarda il sistema intero: «Trovo sbagliato il parallelo con una guerra: nessuna guerra è mai stata così uguale per tutti. Quindi dovremo uscirne tutti nello stesso modo, con un’idea clamorosa, che forse si rivelerà “naturale” e “semplice” e per questo dovrà essere geniale. I pannuccelli caldi non servono». La Galleria conta un ammanco di circa 370 mila euro al mese per marzo e aprile, e ha dovuto annullare una mostra sui Suonatori di liuto di Caravaggio che era in preparazione da due anni.

Bellenger, Bradburne, Coliva e Schmidt sono quattro dei cosiddetti “superdirettori” alla guida di musei che in Italia godono di un’autonomia speciale, in seguito alla riforma del 2014 che ha riorganizzato il Mibact. Le loro istituzioni hanno «le spalle abbastanza grosse per reggere il colpo, se questa situazione di stallo non durerà troppo a lungo», come spiega Schmidt a proposito degli Uffizi. Ma di sicuro non può dirsi lo stesso per la miriade di piccole realtà del patrimonio museale italiano: un tessuto tanto prezioso quanto fragile, che spesso si dibatteva nelle difficoltà finanziarie già da prima dell’emergenza. «Le istituzioni culturali più piccole saranno inevitabilmente costrette a chiudere o a ridimensionarsi in modo radicale» sostiene Bradburne. Bellenger inserisce la cultura tra i pilastri su cui investire alla ripartenza: «Dai politici ci aspettiamo che le nuove priorità siano visionarie, coraggiose e responsabili». E riguardo a cosa si aspetta dallo Stato, Schmidt dice: «Ci sono un sacco di cantieri, di lavori, di opere, che adesso più di prima necessitano di sostegno per essere mandati avanti. Agli Uffizi questo significa avere i mezzi per procedere speditamente con l’ampliamento del museo e con il via libera alla realizzazione della Loggia di Isozaki. Ma il principio vale per tutti i musei, per tutti i beni culturali, aree archeologiche, luoghi della cultura».

Nella drammaticità del quadro, Bellenger individua un paio di chiavi positive. La prima è la soluzione dello smart working: «L’esperienza del lavoro agile al Museo e Real Bosco di Capodimonte sta risultando, spesso, più produttiva del lavoro in ufficio. Questo non è possibile per tutte le categorie professionali, ma per gli amministrativi o gli storici dell’arte che praticano un lavoro intellettuale è un’opzione che va mantenuta. A me come dirigente non interessa che un curatore abbia timbrato, preferisco valutare la sua produzione professionale: il cartellino risponde a un concetto tayloristico del lavoro, cancellato da tutti i musei moderni tranne i nostri».

La seconda chiave positiva per Bellenger è nel rapporto con l’online: «Il virtuale prepara il reale, lo arricchisce, come la fotografia ha reso possibile la storia dell’arte come la conosciamo oggi. La digitalizzazione sarà un’altra rivoluzione fotografica: una rivoluzione cognitiva ma anche democratica, che metterà a disposizione di chiunque ciò che finora era riservato solo a chi aveva le chiavi d’accesso all’arte». Digitalizzazione delle opere, mostre virtuali, promozione attraverso i social: quella dell’online è avvertita da tutti i direttori come una sfida cruciale del presente e del futuro, che integra e non pretende di sostituire l’esperienza della visita fisica. A proposito degli Uffizi, Schmidt non ha dubbi: «Il test di questa crisi prova che la presenza del museo nell’universo della rete debba essere ancora ulteriormente sviluppata. Sarà il motore della comunicazione del futuro, di fatto lo è già in quella del presente. Questa forma di promozione invoglia le persone ad ammirare gli “originali” dal vivo. Oltre a Twitter e Instagram (la nostra punta di diamante, con oltre 460.000 follower), da marzo abbiamo portato le Gallerie anche su Facebook». Intorno al tema, Bradburne rivendica l’anticipo con cui si era mossa la Pinacoteca di Brera: «La crisi ha solo accelerato il lavoro che stavamo già facendo. Siamo stati tra i primi a innovare, rendendo il museo e la biblioteca disponibili online. L’esperienza ci permetterà di creare progetti ancora più innovativi per raggiungere chi non è in grado o è riluttante a tornare di persona al museo». Durante il lockdown, Brera ha visto crescere da 1.500 a un milione gli accessi quotidiani al suo sito internet.

«Nel momento in cui i musei riapriranno, non credo che la gente ricomincerà subito ad affrontare viaggi e spostamenti per visitarli. Proprio per questo sarà un buon esperimento riaprirli il prima possibile, prevedendo che resteranno a lungo semivuoti» dice Coliva. «Non bisogna aver paura del museo semivuoto: chi come me fa questo lavoro da molti anni, ha familiarità con i musei italiani semivuoti. Abituare la gente a frequentarli ha richiesto lavoro e inventiva, è stato molto difficile. Può essere molto facile invece che la gente si disabitui ad andarci. Più in Italia che altrove», aggiunge.

Con il lockdown alle spalle, le visite saranno contingentate: gruppi a numero chiuso, organizzati in turni, nel rispetto delle distanze tra i partecipanti. La Galleria Borghese sarebbe preparata, già da tempo le visite all’ex dimora cardinalizia consistevano di cinque turni per un massimo di 270 visitatori giornalieri. Per una fase intermedia di riapertura, Schmidt confida nell’algoritmo saltacoda che gli Uffizi hanno sviluppato con l’Università dell’Aquila e già sperimentato per eliminare le file: «Potremmo gestire i flussi in maniera dinamica, curando al meglio il social distancing. E se allora ci sarà comunque una flessione iniziale, in realtà già ora vediamo l’enorme desiderio di tornare “fisicamente” a visitarci. Per questa ragione, nel medio periodo potremmo semmai avere il problema contrario».

Bradburne mostra più cautela: «Mi aspetto una riapertura decisamente graduale. Servirà del tempo prima che il pubblico si spinga a tornare nei musei, nelle librerie, nelle sale da concerto. Riaprire il museo sarà molto più difficile di quanto sia stato chiuderlo».