Di Cesare: «Il virus è uno straniero che batteremo solo se ci sentiremo tutti uguali»

Sfugge, glissa, varca i confini, si fa beffa di razzismo e dei sovranismi. Ma intanto acuisce le differenze e mette alla prova la democrazia. Lo sguardo lucido di una filosofa sulla pandemia. E sulle sue conseguenze

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In un mondo in cui tutti siamo disorientati, perché abbiamo smarrito i punti di riferimento, o se vogliamo dove le pratiche connaturate e spontanee, dal respiro all’abbraccio, allo stare insieme, non sono più innocenti e possono risultare pericolose, Donatella Di Cesare prova a ricostruire alcuni fondamenti di pensiero e dare nomi alle cose che molti non osano più esprimere. La filosofa lo fa in un libro “Virus sovrano? L’asfissia del capitalismo”, dal 23 maggio con “L’Espresso” e “la Repubblica” (e prossimamente in libreria, edito da Bollati Boringhieri).

In una situazione in cui metà dell’umanità si è trovata in una condizione di reclusione, valgono poco i paralleli con il passato, anche se la catastrofe che si dispiega davanti ai nostri occhi è debitrice dello stesso passato. Di Cesare è filosofa radicale, abituata a parlare con chiarezza di situazioni estreme: dalla Shoah alla questione dei migranti (con tutte le differenze fra le due), a frequentare i territori incerti delle identità plurime e contraddittorie, a combattere ogni nazionalismo. Ecco, in questo libro di appena 90 pagine, l’autrice usa la sua sapienza per dire che non è giusto accettare lo stato di cose esistente. Lo fa senza la pretesa di sapere tutto, ma formulando ipotesi che aiutano a tornare ad agire da cittadini ed esseri umani che non hanno rinunciato al sogno di un mondo di democrazia e inclusione.

Cominciamo dalla fine del suo libro, dal capitolo conclusivo. In quella pagine lei parla della “catastrofe del respiro”. Respirare è esistere. Dire “la catastrofe del respiro”, significa quindi la catastrofe dell’esistenza? Le categorie elementari con cui pensiamo a noi stessi sono cambiate per l’impatto del coronavirus?

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«Avrei quasi voluto intitolare il libro “La catastrofe del respiro”. Impalpabile, etereo, quasi astratto, il biovirus assassino sferra un attacco nell’aria. Mira al fiato, toglie il respiro e provoca una morte orribile. È il virus dell’asfissia. Il respiro assume allora un valore inedito. Si parla ovunque di respirazione e di ossigeno. Nelle terapie intensive medici e infermieri lottano ogni giorno per evitare l’asfissia mortale. Dopo tutto quel che accaduto, il respiro non dovrebbe più essere un’ovvietà. Già a partire dal secolo scorso il respiro è stato bersaglio sistematico. Basti pensare all’impiego di gas e veleni: dal cloro, sul primo fronte bellico, all’acido cianidrico, nello sterminio, dalla contaminazione radioattiva alle armi chimiche. La manipolazione dell’aria ha messo fine al privilegio ingenuo goduto dagli esseri umani prima della cesura novecentesca, quello di respirare senza preoccuparsi dell’atmosfera circostante. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare questa catastrofe del respiro che, provocata da un virus, sembra però stagliarsi sullo sfondo di un’inquietante continuità».

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“Virus sovrano?”Con l’Espresso
14/5/2020
In “Virus sovrano” si parla di “democrazia immunitaria”, si contrappone la democrazia greca che coinvolge i cittadini, alla democrazia modello “noli me tangere”: ognuno a casa sua, “padroni a casa nostra”, per usare uno slogan celebre. Ora, l’idea di una società incontaminata, ricorda ideologie e pratiche pericolose dove la purezza è contrapposta alle contaminazioni: di culture, religioni, usi e costumi. Dal punto di vista politico cosa vuol dire esattamente “democrazia immunitaria”? E quali saranno le conseguenze?
«Parlo di “virus sovrano” con una certa ironia. Il coronavirus si chiama così per quell’aureola suggestiva e temibile che lo circonda. È un virus sovrano già nel nome. Sfugge, glissa, varca i confini. Si fa beffe del sovranismo che avrebbe preteso di ignorarlo grottescamente o di trarne vantaggio. E diventa il nome di una catastrofe ingovernabile che ha smascherato i limiti di una governance politica ridotta ad amministrazione tecnica. È difficile capire quel che avviene, se non si guarda al passato recente.

«Il virus ha acuito una situazione già consolidata. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così eclatante e sfrontata come in questa crisi. Passata alla lente del virus, la democrazia dei paesi occidentali si rivela un sistema d’immunità. La condizione d’immunità riservata agli uni, i protetti, i preservati, viene negata agli altri, gli esposti, i reietti, gli abbandonati. Si auspicano cura, assistenza, diritti per tutti. Ma il “tutti” è una sfera sempre più chiusa: ha frontiere, esclude, lascia dietro sé avanzi, resti. L’inclusione è un ostentato miraggio, l’uguaglianza è una parola vacua che suona ormai come un affronto. Il divario si amplia, lo scarto si approfondisce. Non è più solo l’apartheid dei poveri. Il discrimine è proprio l’immunità, che scava il solco della separazione. Quest’altra umanità - ma saranno poi “umani”? - è inesorabilmente consegnata a violenze di ogni genere, a guerre, genocidi, fame, sfruttamento sessuale, nuove schiavitù, malattie».

Più si fa esigente ed esclusiva l’immunizzazione per chi è dentro, più diventa implacabile l’esposizione dei superflui lì fuori. Le forme di avversione si moltiplicano, la fobia del contatto si diffonde. Dove prevale l’immunità, viene meno la comunità. Si può chiamare ancora “democrazia”?
«Più che di biopolitica io parlerei ormai di immunopolitica. Politica e medicina, ambiti eterogenei, si sovrappongono e si confondono. Il cittadino, divenuto ormai quasi un paziente, si rassegna a seguire ogni regola igienico-sanitaria. E però non potrà non interrogarsi sugli esiti di una democrazia medico-pastorale. Gli effetti ricadono anche sui cittadini, ad esempio lì dove l’amministratore sovrano svela il suo volto oscuro, lasciando morire per noncuranza, freddezza, incompetenza».   

Come spesso nei momenti delle crisi sono riemerse le teorie del complotto, le fake news…
«In questo caso ben più che in altri. Il coronavirus è il “Grande Nemico” nato dal ventre di un pipistrello, un’apocalisse in provetta, una strategia di marketing delle lobby farmaceutiche per aumentare le vendite di medicine, un esperimento voluto e finanziato da Bill Gates. È una “grande menzogna” orchestrata dai “poteri forti” per nascondere gli effetti letali del 5G, la tecnologia che distruggerebbe il sistema immunitario. È il “virus cinese”, sfuggito dal Laboratorio di biosicurezza nazionale. In ogni caso è un “virus straniero”. Il mistero che ne avvolge l’origine accende la fantasia complottista e dà adito a interpretazioni disparate, ipotesi bizzarre e opportunistiche. Questa volta perfino i capi di governo hanno rilanciato frottole e dicerie. Primo fra tutti Trump. La guerra globale si combatte anche a colpi di favole complottistiche. Perciò ho dedicato un intero capito del libro a questo fenomeno: il contagio del complotto».

Parliamo dell’Altro, un tema molto presente in letteratura e nella filosofia. Spesso si è voluto paragonare la situazione dell’epidemia alla guerra. Ma in guerra l’Altro è il nemico, in carne e ossa. Nella retorica xenofoba poi, l’Altro è il migrante o il suo fantasma. Leggendo il suo libro l’Altro è invece il virus, non un nemico. Ma allora cosa è l’Altro?
«Il gergo bellico, che ha dominato la narrazione di questo evento, lascia pochi dubbi sui rischi repressivi. Infatti sono state prese misure eccezionali, con tutti i risvolti giuridici che comportano. E tuttavia non c’è nessuna mobilitazione militare. La medicina è una lotta per la vita e le sue vittorie non si basano sulla morte. La crisi sanitaria non può essere il pretesto per aprire un laboratorio autoritario. Questo non vuol dire rifiutare in modo ingenuo e avventato quelle cure che possono frenare il propagarsi del virus. Ma le misure biosecuritarie devono rendere vigilanti. Immaginare quel che è avvenuto come una guerra sarebbe un ostacolo per la riflessione.

«Il virus, un’infima porzione di materia organizzata, è il genio maligno dell’alterità. Circola di corpo in corpo, contamina, altera. Non possiamo pretendere di sopravvivere in spazi asettici. In breve: l’immunizzazione assoluta è un miraggio. Virus e batteri sono ormai tra noi. Occorre convivere con questi coinquilini aggressivi. I sistemi immunitari sono un’arma a doppio taglio: nell’intento di eliminare l’altro, il sé finisce per uccidersi o esporsi a malattie autoimmuni. Il sé identitario e sovranista non se la cava bene neppure qui. Anche perché presume un’integrità e un’identità che non esistono. La cosiddetta “dose infettante” è indispensabile. Questa pandemia è un’interruzione che segna il corso della storia, scalfisce l’esistenza, cambia habitat, abitudini, abitazione e coabitazione. Sarà necessario convivere con questo virus e, forse, con altri». 

Nella discussione pubblica sul coronavirus si fanno molti paragoni con il passato. Difficile ragionare senza citare i precedenti. Viene richiamata la spagnola, la peste di Milano, il terremoto di Lisbona del 1755. Lei sembra scettica al riguardo. Però dice che dopo la peste del 1348, arrivò il Rinascimento.
«Ho cercato di confrontare la pandemia globale con i due eventi che hanno segnato questo nuovo secolo, e cioè l’11 settembre e la crisi finanziaria del 2008. Le differenze sono palesi. Il crollo delle torri non scalfì davvero l’andamento della storia e noi restammo tutto sommato spettatori. Oggi siamo vittime potenziali. Quanto alla crisi attuale, è extrasistemica, perché sembra fermare dall’esterno l’ingranaggio capitalistico. Né castigo divino, né nemesi della storia, è difficile non vedere nella pandemia la conseguenza di scelte ecologiche miopi e devastanti. Se poi andiamo ai secoli scorsi, la pandemia del coronavirus viene paragonata ad avvenimenti che nel passato hanno sconvolto la storia umana. Addirittura al terremoto di Lisbona nel 1755! Più frequentemente vengono rievocate la peste nera del 1348 o l’influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1920, uccise milioni di persone.

«Senza ignorare possibili affinità, si deve tuttavia sottolineare che questa pandemia, scoppiata in un mondo globalizzato, non ha precedenti. Già solo per l’enorme rapidità del contagio, dovuta non solo all’aggressività del virus, ma all’accelerata circolazione planetaria. Decisivo è il valore simbolico dello shock che inevitabilmente si ripercuote su una crisi economica, a sua volta inedita. L’economia mondiale non si è mai fermata in questo modo. Lo scenario non è difficile da prevedere: recessione, rovina per molti, miseria irreversibile per i già poveri. Proprio la peste nera del 1348 può rappresentare un punto di riferimento per una riflessione. Anche quella terribile epidemia segnò un prima e un poi nella storia. Dai racconti e dalle cronache rimasti trapela la sensazione dei superstiti di essere entrati in un’altra epoca. Il cielo si era chiuso su quella passata. Chi era stato risparmiato si aggrappò alla vita con un impeto febbrile. Da quella prima epidemia cittadina nacque il mondo civile del Rinascimento. Il nuovo inizio diede, però, il via al contagio dell’arricchimento. Assunse rilievo il il guadagno. Pazienza e rassegnazione lasciarono il posto a temerarietà e audacia.

«È durato secoli il grande sogno europeo - poi occidentale - della globalizzazione.  Fin quando gli incubi non si sono moltiplicati. Il profitto si è rivelato non solo il sigillo dell’ingiustizia, la garanzia della povertà dei più, ma anche un asfittico vicolo cieco. La spietatezza del capitalismo è - anche grazie al virus - sotto gli occhi di tutti. Monito e presagio della memoria europea, la peste nera dovrebbe insegnare che è necessario chiedersi per cosa vivere in futuro, che è indispensabile guardare a quei confini ultimi che abbiamo disimparato a sognare».

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