Il coronavirus è un avvertimento della Natura, sostiene il filosofo francese. Da come lo affrontiamo arriva una grande lezione per il futuro: possiamo agire insieme per il bene nostro e del Pianeta. Ma dobbiamo farlo in fretta

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Siamo irrimediabilmente galileiani, ci avverte da tempo Bruno Latour. Guardiamo in su, a Sirio, alle galassie. E persino al nostro pianeta volgiamo quel tipo di sguardo, grazie alle immagini che ci hanno restituito le missioni lunari e continuano a fornirci i satelliti. Il globo: perfetto, vivente. Il Pianeta blu.

Dovremmo invece rovesciare lo sguardo verso “Gaia”, che non è l’“organismo”, il pianeta blu che ospita una vita, una “natura” idealizzata. Ma è piuttosto un “agente” che retroagisce a tutte le nostre azioni. E che ci sta presentando il conto.

Riprendendo l’ipotesi di “Gaia” - formulata negli anni Settanta dal chimico e inventore James Lovelock - Bruno Latour, filosofo e antropologo della scienza, ci invita da anni a demolire gran parte dei pilastri su cui abbiamo costruito la nostra “modernità”, a cominciare dal dualismo natura/cultura. Ci invita a una rivoluzione culturale senza precedenti, a una filosofia dell’Antropocene.

«Gaia è qui presentata come l’occasione di un ritorno sulla Terra che consenta una versione differenziata delle rispettive qualità richieste alle scienze, alle politiche e alle religioni, ricondotte finalmente alle definizioni più modeste e terrestri delle loro antiche vocazioni», scrive nel capitolo introduttivo di “Face à Gaïa”, il suo fondamentale testo del 2015 - tra i più discussi dalle comunità scientifiche e filosofiche mondiali - che il 25 giugno arriverà finalmente in Italia, con il titolo “La sfida di Gaia, il nuovo regime climatico” (e con una postfazione del climatologo Luca Mercalli) grazie a Meltemi editore.

Bruno Latour non è stato risparmiato dal virus. Sta trascorrendo la convalescenza nella sua casa di Parigi. È da lì che ha accettato questo colloquio con L’Espresso, nell’attesa di potersi trasferire in campagna.

Professore, c’è qualche parentela tra questa situazione determinata dalla pandemia (inimmaginabile fino solo fino a qualche mese fa) e quella che lei ha immaginato e preconizzato nei suoi studi, quella di un’umanità “moderna” che si trova a dover fare i conti con il collasso ecologico, con Gaia, con l’impossibilità del “moderno”?
«Non direttamente. E in termini di politica ecologica la crisi attuale è il modo peggiore per prepararsi al cambiamento climatico. Tutti diranno: “se è questo il tipo di catastrofe... , allora ignoreremo ancora di più la questione climatica”. No, l’unico modo per stabilire una connessione è di considerare la portata. In termini di portata, sì, possiamo dire che il modo del coronavirus di immobilizzare l’intero pianeta a una velocità incredibile ci dà un’idea di cosa voglia dire “affrontare/guardare in faccia Gaia”. Qualsiasi cosa accada in seguito, contrastare il cambiamento climatico richiederà qualcosa della stessa misura e altrettanto globale e complesso. Quindi, in quel senso, è una specie di prova, o almeno un avvertimento di ciò che avverrà. Con una differenza cruciale: in un certo senso noi sappiamo cosa significhi per un governo proteggere i propri cittadini contro la morte a causa dei microbi, il governo è legittimato a imporre misure e anche a limitare le libertà, ma non siamo per niente d’accordo su cosa significhi per un governo proteggere la vita degli esseri umani contro la loro autodistruzione, questo è nuovo. E nessuno Stato è legittimato a richiedere sacrificio e restrizioni alla nostra libertà. Questo è, a mio avviso, il limite più difficile nel connettere la crisi sanitaria con il mutamento ecologico».

Lei ha insistito molto sul concetto di “abitabilità” del pianeta. Come possiamo spiegarlo nel momento in cui le condizioni di abitabilità di un microrganismo con qualche miliardo di anni prevedono la nostra eliminazione, o quantomeno una nostra radicale trasformazione?
«Abitabilità è un modo per comprendere Gaia, non un modo per dire “il pianeta è vivo”, non per assegnare valori morali a questo o quel microbo o a questa o quella piaga. È un modo per segnalare il fatto molto semplice che qualsiasi organismo vivente crea le condizioni di vita per altri, semplicemente, per esempio, rigettando i propri scarti. Quindi non c’è niente di provvidenziale, armonioso e intenzionale in Gaia; è solo che ogni organismo vive nelle non volute conseguenze della vita di organismi precedenti nella storia della Terra. Respiriamo l’ossigeno prodotto da batteri e piante per i quali era una sorta di indiretto e imprevisto scarto. E loro non producono ossigeno per il nostro bene…

«Gli organismi viventi (quelli aerobi) hanno appena imparato a vivere all’interno di un’atmosfera ricca di ossigeno, che era inquinamento due milioni e mezzo di anni fa per gli organismi (anaerobi) che avevano imparato a vivere al di fuori degli scarti di organismi differenti. Gaia non è una madre benevola che ricerca il nostro bene, e questo è particolarmente vero per la Gaia della mitologia – guardi a qualsiasi storia sulla sua opera, è terribile! Quindi l’abitabilità deve essere preservata precisamente perché non è affatto preparata e progettata per gli umani. E a questo punto il Sars-CoV2 è un caso emblematico: per sbaglio gli esseri umani hanno fornito a questo virus una condizione ideale per crescere, prosperare e diffondersi quasi incontrollato tra milioni di persone, proprio come un parassita/insetto attraversa una foresta di alberi della stessa specie. Quindi, per rispondere alla domanda: dobbiamo adattarci al modo del virus di diffondersi dal momento che gli abbiamo dato una nuova occasione per prosperare. Non ha niente contro di noi. Di nuovo, Gaia non è Madre Natura».

Sono molti, nel suo libro, i passaggi impietosi sulla nostra impreparazione-cecità culturale, sull’inadeguatezza drammatica delle classi dirigenti globali. Eccone uno: «Nel momento stesso in cui dovremmo rifare la politica, non abbiamo più a nostra disposizione altro se non le risorse patetiche del “management” e della “governance». Un virus sta già cambiando in profondità la politica: la “protezione della vita” nella maggior parte degli stati sacrifica le libertà in una misura che sembrava inimmaginabile, almeno nelle democrazie liberali. Ma forse non sarà questo (o non solo) il terreno su cui si giocherà “la sfida di Gaia”. Il suo libro “Tracciare la rotta” (uscito in Italia due anni fa) porta come sottotitolo “come orientarsi in politica”. In che senso l’abitabilità è una questione politica? E abbiamo a disposizione un linguaggio, un pensiero politico all’altezza delle sfide poste da quello che lei definisce Nuovo Regime Climatico?
«Beh, questa è la domanda nuova e cruciale e amo profondamente il modo in cui l’ha posta. Al momento, direi, no. È vero, non abbiamo modi per trasformare in una politica comune la questione dell’abitabilità. E quindi di nuovo, il coronavirus è una formidabile lezione: come ho detto prima, i governi sono legittimati a combattere l’epidemia e a imporre restrizioni alla libertà - questo è ciò che può essere chiamato “biopolitica numero uno/di prim’ordine” - perché ci aspettiamo che sia lo Stato a controllare il benessere della sua popolazione umana. Ma non esiste nessun equivalente, nessuna legittimità dello Stato, per ciò che può essere chiamato “biopolitica numero due/di second’ordine”, che ha a che fare questa volta non con il benessere della popolazione umana, ma con il benessere di tutte le popolazioni di forme di vita che creano le condizioni materiali perché gli umani prosperino.

«In entrambi i casi, sono gli umani che devono essere protetti, ma in un caso si tratta di umani contro microbi; nell’altro ciò che dovrebbe essere protetto sono tutti gli esseri che hanno generato una terra abitabile prima per se stessi e in più per gli umani. In un caso i microbi sono i nemici. Nell’altro, è molto più complicato, siccome mantenere condizioni di abitabilità include aria, terra, piante, acqua e la sorprendentemente complessa relazione tra i microbi e tutte le forme di vita. Per questa seconda forma di biopolitica non esiste Stato in grado di esprimere la celebre “volontà generale”. È una domanda che mi pongo, a cui mi dedico da più di 40 anni…. E una delle spiegazioni studiate nel libro è che è ancora difficile definire Gaia e riconoscerla come un potere che esercita influenza, influenza politica sulle nostre leggi e il nostro sistema di governo. Accadrà, i segnali sono dappertutto (compresi certamente quelli nell’accordo di Parigi che si appella, in un certo modo, a un potere superiore) ma ciò non si è ancora tramutato in un sistema di governo legalmente comprensibile. Sono molto contento che lei abbia sollevato la questione, perché è la direzione da seguire e il motivo per cui il libro può essere di una qualche utilità».

Leggo dal suo libro, professore: «Le sirene hanno suonato, ma sono state disattivate a una a una. Abbiamo aperto gli occhi, abbiamo visto, abbiamo saputo, abbiamo tirato dritto tenendo gli occhi ben serrati». E allora forse nemmeno la pandemia è un “cigno nero” come molti si sono affrettati a dire citando il famoso libro di Nassim Nicholas Taleb. Non è l’“impossibile” che all’improvviso irrompe nella storia. Era prevedibile e prevista, come ci ricorda un altro libro molto citato in questi tempi, “Spillover” di David Quammen. Ma i governi mondiali sono rimasti inermi. Non ci siamo preparati. Come sta accadendo per gli effetti del collasso ecologico e climatico in corso. Come lo spiega?
«Non ho nessuna spiegazione, ma non riesco proprio a vedere come qualsiasi governo potrebbe essersi preparato. Di certo ci sono stati molti avvertimenti da parte di specialisti della sanità pubblica, storici, militanti e farmacologi, ma è come la questione climatica: se non stiamo agendo non è a causa di una mancanza di conoscenza, ma a causa della mancanza di modi per far sì che tale conoscenza venga assorbita, incorporata, accettata, realizzata e metabolizzata dalla maggior parte dei cittadini. Comunque, le società non hanno preveggenza. Solo nella mitologia Prometeo vede in avanti (nel futuro). Noi non possiamo, nessuno può. Reagiamo a ciò che è presente. La differenza sta tra reagire lentamente o velocemente, o piuttosto non reagire, cioè negare che esista un problema, o accettare il problema e reagire nel miglior modo possibile. A me sembra che, se consideriamo il modo in cui i governi hanno reagito al virus così come al cambiamento climatico, possiamo ottenere una differenziazione abbastanza chiara tra coloro che negano e coloro che reagiscono alla crisi. Quindi non dovremmo essere indignati e dire “avresti dovuto saperlo e proteggerci”, ma dovremmo capire chi è stato lento e chi è stato veloce a reagire all’imprevisto. Negare ciò che sai è il crimine, e questo è il motivo per cui la modalità con cui Trump gestisce la crisi è così criminale.

«Nel complesso, comunque, la velocità con cui gli Stati hanno reagito è assolutamente formidabile. In precedenza ci era stato detto che c’era un’inerzia sociologica tale da impedire qualsiasi cambiamento e che quelle società stavano avanzando verso dei disastri senza cambiare rotta. Ebbene, in due mesi, metà del mondo è impegnato in una crisi economica di gigantesche proporzioni. La plasticità delle collettività mi sembra piuttosto sorprendente. Ciò non significa di certo che i cambiamenti arriveranno per il bene, in positivo, ma significa che l’idea che siamo incapaci di agire collettivamente abbastanza velocemente e globalmente sotto una minaccia è sbagliata. “Sì, possiamo”. E io sono affascinato dall’idea che potremmo imparare dal virus che la sua capacità di agire non richiede nessun grande sforzo: il virus è molto piccolo! Ma si diffonde… Potrebbe essere un modello anche per la politica? Il virus ridefinisce interamente l’abituale assetto tra locale e globale, grande e piccolo, debole e forte. Ecco perché questo tragico esperimento è così importante da capire».