«Ho messo il mio numero in Rete per ascoltare le parole del Paese: ecco chi mi ha chiamato»
Un giorno Arminio ha fatto un esperimento: ha pubblicato il numero su Internet. E ha ricevuto centinaia di chiamate. Da Alfredo che ha visto morire le sue api. Ad Antonella, che non potrà più avere un figlio. A Rosa, che ha di nuovo voglia di baciare un uomo. Tra paure e ricordi, speranze e fragilità
Sono giorni terribili e preziosi. Chi ha la fortuna di non essere malato, di non dover combattere per trovare i soldi per mangiare o pagare l’affitto, può approfittarne per dare una piccola scossa al suo malumore e provare a uscire dal barattolo dove conserva la sua vita. Dovrebbe essere chiaro a tutti che la vita è materia labilissima e di cui non siamo padroni. Non siamo qui per parcheggiare i nostri neuroni nelle strisce bianche. Non si vive gratis. Si paga ogni gioia, ogni conoscenza.
Io mi sono accorto che stavo seguendo la vicenda del virus poggiandomi sul condominio del panico in cui da decenni mi aggiro. Mi sembrava di essere un esperto e di poter scrivere di questa cosa dando uno sguardo ogni tanto al flusso informativo. La sera del 13 marzo mi è venuto il sussulto di mettere il mio numero di telefono in Rete. L’ho fatto anche altre volte. In questo caso mi sono proposto come una figura a metà tra il medico e il sacerdote. Una posizione non dichiarata, il senso delle cose che facciamo non siamo noi a stabilirlo. Era chiaro che chi mi avrebbe telefonato non solo dava fiducia ai miei versi, ma al tremore terapeutico che alcuni trovano dentro la fitta trama del mio scrivere.
Non bisogna avere paura di sembrare immodesti. E infatti il gesto è stato colto come segno di umiltà, come messa a disposizione del mio tempo per altri. Aiuta che gli altri ti aiutano, questo potrebbe essere il motto. Dal 14 marzo al 14 aprile ho ricevuto una ventina di telefonate al giorno, a cui vanno aggiunte un centinaio di mail a settimana. Chiamano persone di ogni età, studenti e commercianti, architetti e casalinghe, chiama chi vuole leggerti una poesia e chi vuole raccontarti un lutto, una separazione. In genere sono persone che parlano una bella lingua.
Da qualche anno le frasi più interessanti non le pesco nei libri, ma nelle conversazioni telefoniche. In qualche modo quelli che una volta erano i semplici ora sono i veri intellettuali, forse perché la forma più alta di intellettualità è essere generosi, affidarsi. Uno scrittore morto da poco parlava della casalinga di Voghera. Oggi forse le casalinghe di Voghera sono gli intellettuali. In fondo c’è più conformismo in chi dovrebbe leggere il mondo che in chi tradizionalmente era vocato solo a farlo andare avanti col suo lavoro. L’unico neo di questa storia è che sono dialoghi senza corpo, a parte questo sublime miracolo della voce che ha la forza di portarci il tono degli altri, il loro modo di cucire la vita del corpo nella vita del cosmo. Quelli che seguono sono solo alcuni degli appunti che ho preso mentre parlavamo. Spero che anche così parlino un poco dell’Italia virtuosa che abbiamo intorno.
Francesca, vive a a Padova, ma è di origini toscane. Fa la psicologa e parliamo del buon uso del dolore. Luca, il padre e la figlia Irene, da Crema. Giocano a pallavolo in una zona non frequentatata della cittadina. Il padre mi dice che sente il rimbombo del pallone quando cade a terra. Prima non si sentiva.
Maria Fabia, vive a Roma, ma è originaria di San Giovanni Rotondo. Mi parla di suoi problemi antichi. Dobbiamo ricordarci che il virus è piombato in vite che erano già piene di fragilità. Lorenzo da Roma, traduttore. Interessante colloquio su una frazione di Amatrice e sul fatto che nei piccoli luoghi ogni casa è come un papiro su cui è scritta la storia.
Serena, da Caravaggio, Bergamo. Fa l’insegnante di sostegno e mi suggerisce un verbo molto appropriato alla situazione che stiamo vivendo: ora non si muore, si sparisce. Dal letto di ospedale direttamente nella bara e al cimitero. La morte che diventa furtiva è più difficile da elaborare per i parenti di chi “sparisce”. Nadia, Siracusa, mi parla dei suoi originali spettacoli teatrali. Verrà al festival di Aliano (se riusciremo a farlo). Parliamo del silenzio di questi giorni. Lei lo chiama “silenzio fermo”.
Carla, insegnante da Arma di Taggia. Parliamo dello scrivere e mi viene da pensare che se adesso non è il caso di camminare, forse si può farlo scrivendo: scrivere è un modo di camminare dentro di noi. Alfredo, apicoltore da Leonforte. Gli chiedo come stanno le api. Da tre mesi non piove. Le fioriture sono danneggiate, il frumento fatica a crescere. Nota che in campagna gli uccelli cantano tranquillamente. Bello il discorso sugli Altari di San Giuseppe, un rito in cui il 18 e 19 marzo si omaggia la terra.
Giacomo, Forlì, vignaiolo. Si lamenta del fatto che in certi paesi vanno in giro persone sole e sfortunate su cui non è il caso di infierire con l’obbligo di stare a casa, visto che già normalmente non hanno persone intorno. Letizia da Milano, lavoratrice precaria, mi parla di alcune iniziative di socialità residua, quella possibile sui balconi. Rosa, dall’Isola D’Elba. Settantasei anni, vedova, origini friulane. Mi dice una cosa bellissima, che ha voglia di baciare un uomo.
Luisa, avvocato di Varese, volontaria all’Hospice, ragiona sul diritto alla buona morte. Alessandra, 21 anni da Roma. È originaria di Martina Franca: sta sognando il mare. Aldo da Oristano, tornato in Sardegna dopo anni a Milano. Il ritorno nell’isola non è stato facile. Ragioniamo delle crisi che da sempre hanno spinto in avanti l’umanità. Valentina da Enna, preoccupata per i genitori anziani. Mi dice che per lei sono un calmante. Allora il mio potrebbe essere un lavoro di calm center. Invece di un tranquillante si può provare a leggere un poco di poesia.
Anna da Erchie, 25 anni, psicologa clinica, impegnata anche nella psiconcologia. Uno dei tanti esempi del patrimonio umano a cui affidarci per non fallire. Giovanna da Nerviano, nel milanese. «È come se da sempre stessi aspettando il mio momento, ma non arriva mai», dice. Anche questo virus allontana l’epifania con la vita. Serena da Castel Madama, ingegnere ricercatrice. Ogni sera nel suo vicolo il parroco spalanca il balcone e prega per tutti. Antonella vive a Torre Annunziata ma lavora a Napoli. È impiegata in un call center. Col marito stava seguendo il protocollo per una fecondazione assistita. Ha quarantadue anni, il sogno di un figlio è ancora rimandato.