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Bachmann, Henze e l'amore platonico nel debutto teatrale di Marco Tullio Giordana

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Un carteggio trovato per caso in un'auto d'epoca appartenuta al compositore. Così in"Fuga a tre voci" il regista reinventa la tormentata storia d'amore tra due grandi artisti del Novecento

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Ingeborg e Hans, la «dolce fanciulla color pastello» e «il ragazzo biondo», la «carissima ragazza dubbiosa» e il «caro, caro, caro amico». Scrittrice, poetessa, giornalista austriaca di una straordinaria intelligenza lei, raffinato compositore tedesco lui, Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze, nati entrambi nel 1926 a pochi giorni di distanza, si sono incontrati giovanissimi, nell’autunno del 1952, e subito si sono adorati, anche se il loro amore è sempre rimasto “platonico”.

Lui omosessuale, lei lacerata da infinite relazioni infelici (fra cui quella con Max Frisch o con Paul Celan), eppure alla continua ricerca l’uno dell’altra, avvinghiati da un rapporto intimo e profondo, come dimostrano le tante lettere scritte che hanno ispirato lo spettacolo teatrale pronto a debuttare il 1° agosto al Teatro Poliziano di Montepulciano (Siena) nel cartellone del 45esimo Cantiere Internazionale d’arte (di cui Henze è il fondatore): Fuga a tre voci, scritto e diretto da Marco Tullio Giordana, regista di tanti film e spettacoli di successo, da “I cento passi” sul grande schermo a “Questi fantasmi!” in palcoscenico, e qui al suo debutto come drammaturgo, con Michela Cescon nei panni della Bachmann, Alessio Boni in quelli di Henze, e Giacomo Palazzesi alla chitarra. Una vera e propria partitura musicale quella che si delinea in scena, concepita come una buca d’orchestra, dove per la prima volta in teatro verrà raccontata questa strana e affiatata relazione fra la scrittrice e il musicista (qualche anno fa Sonia Bergamasco diede voce a Ingeborg Bachmann interpretando “Il trentesimo anno”).

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«Inge e Hans hanno un legame forte, è un grande amore senza eros eppure così potente», racconta Marco Tullio Giordana, colpito soprattutto dal senso di pudore e dalla generosità priva di veli che traspaiono da queste lettere. «Quando si conoscono sono entrambi giovani promettenti, lei diventerà una grande scrittrice e sopratutto una bravissima poetessa, lui un eccentrico e talentuoso compositore classico, uno dei pochi ad aver scritto musica per la chitarra senza saperla suonare (ho tentato di suonarla anch’io, ma non ci son riuscito!)», continua: «Tra loro si instaura subito un legame speciale, intimo e familiare. Lui ad un certo punto le chiede anche di sposarlo, lei accetta, ma poi lui fa un passo indietro. Per un periodo convivono in Italia e naturalmente lavorano anche insieme». Hans le chiese di scrivere alcuni libretti delle sue opere, fra cui “Il principe di Homburg”, basato su un testo di von Kleist. La musica è sempre stata presente fra di loro, ecco perché lo spettacolo si chiama “Fuga a tre voci” e i personaggi sono tre: Hans, Ingeborg e la chitarra di Giacomo Palazzesi.

«Appena ho letto la loro corrispondenza ho pensato: questo è uno spettacolo teatrale... E così ho riscritto, sintetizzato, contaminato fra loro circa duecento lettere, quelle non spedite. Ho immaginato di averle ritrovate in una vecchia Maserati, un tempo appartenuta a Hans Werner Henze. Lettere in alcuni casi illeggibili e scritte in diverse lingue, dal tedesco al francese, sparse tra i pezzi dell’auto smontati e ammassati negli scatoloni e poi recuperate per essere trascritte e infine portate in scena». Che fosse vero o no il ritrovamento nella vecchia Maserati, di certo il carteggio fra i due è realmente esistito ed è proseguito per oltre vent’anni, dal 1952 al 1973. Parzialmente dato alle stampe nel 2008, è raccolto in un libro che si intitola “Lettere da un’amicizia” (a cura di Hans Holler, Edt).
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Sono carte piene di pathos e di sentimento, ma prive di pettegolezzi, sono parole e frasi d’amore per la vita e di disperazione, di gioia e di dolore, e in cui si intrecciano tanti temi, molti dei quali presenti nelle loro opere: la sfiducia nella Germania nazista e conformista, quindi la fuga verso il Sud, la passione per Italia, Ischia, Napoli, Roma, l’isolamento intellettuale e l’impegno politico (entrambi sostennero la candidatura del socialdemocratico Willy Brandt), il successo e il difficile equilibrio fra amore, scrittura, vita.

Il 17 ottobre 1973 Ingeborg muore, a Roma, dopo una lunga agonia in ospedale, uccisa dal fuoco di una sigaretta che avvolse la sua vestaglia di nylon durane un attacco di torpore dovuto ai barbiturici che stava assumendo. Lui non si darà pace. Continuerà ad essere lacerato dai sensi di colpa, per averlo saputo in ritardo e per non essere riuscito a fare nulla. Coninuerà a cercarla nei suoi sogni e ovunque attorno a lui, come racconta anche in una delle lettere: «Ogni tanto mi succede di rivederti. Per strada, in un negozio... qualche volta in casa o nel giardino». Un grande amore, dunque, come quello fra Abelardo ed Eloisa, il teologo e la fanciulla, che infiammò la Parigi dell’anno Mille prima di trasferirsi su carta, nelle loro lettere, l’unico luogo in cui poter dialogare anche di libri e di filosofia, del mondo e della vita..

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