Un figlio che non è un figlio. E una figlia che non vuole esserlo più. Il nuovo romanzo di Alessandra Sarchi esplora le tante facce della maternità. Tra drammi, libertà, responsabilità. E nuove tecniche che danno la vita

Illustrazione di Irene Rinaldi
È il contrario di un romanzo a tesi "Il dono di Antonia" di Alessandra Sarchi (in uscita per Einaudi Stile Libero). Un libro bellissimo per cui si potrebbe inventare la definizione di "romanzo a dubbio", perché solleva domande su un problema attuale e scomodo come quello dei nuovi modi di dare la vita consentiti dalla tecnologia medica, senza prendere mai posizione. Il tea - oggi molto discusso, ma poco rappresentato in letteratura- si libera di ogni ideologia e diventa «una questione di carne prima ancora che di pensieri, con tutto quello che d'inesprimibile e di oscuro la carne si porta dietro».

La vita di Antonia, una donna di mezza età tormentata dal rapporto con la figlia adolescente che soffre di anoressia, cambia all’improvviso quando si presenta da lei Jessie, un ragazzo californiano. Quello studente di Harvard alto un metro e ottanta è l’ovulo che, ventisei anni prima, lei ha donato alla sua amica Myrtha. Deve considerarlo suo figlio o «i figli sono di chi li cresce, di chi li educa, di chi li sopporta e di chi li rende autonomi, amandoli»?

Fino al giorno prima, Jessie era solo «un punto lontano, un’esistenza ipotetica, nessuno in concreto da conoscere nelle infinite pieghe del carattere, nessuno da nutrire, vestire, confortare, educare, sgridare e difendere, nessuno per cui doversi preoccupare, nessuno dal cui amore dipendere, come si dipende dall’amore di un figlio». Perché Antonia, dopo avere fatto il dono più grande, cioè la vita, è sparita. Ha avuto paura del suo stesso gesto.

«Ho deciso di scrivere un romanzo su questo argomento perché mi interessa lo spostamento di confini fra quello che consideriamo naturale e quello che è artificiale», spiega Alessandra Sarchi. «Quando questo confine in continuo movimento riguarda la vita e la morte o la longevità – penso alla scoperta degli antibiotici o ai trapianti – non facciamo fatica ad accettarlo. Quando invece va a toccare una cosa come la riproduzione e la generazione, che ha una sua sacralità, legata anche alle religioni o all’istinto di sopravvivenza della specie, allora ci sono delle resistenze. E diventa necessaria una mediazione culturale».

«È stato scardinato il concetto di fertilità e longevità, per esempio. Perché oggi puoi diventare madre a quaranta e perfino cinquant’anni», continua Alessandra Sarchi, «e c’è stato un enorme crollo della fertilità in Occidente, soprattutto da parte maschile. Con il risultato che nei Paesi del Terzo Mondo si fanno figli con un ritmo biologico diverso e si è creata una disparità con l’Occidente ricco e sterile».

Qui sta il problema. Evidente soprattutto nella gestazione per altri, a cui è contraria la filosofa francese Sylviane Agacinski che, recentemente intervistata da Anna Bonalume (L’Espresso numero 33 del 9 agosto 2020), ha parlato di «un vero e proprio baby-business, un mercato globalizzato della maternità».

«È la posizione di molte femministe in Europa», commenta Alessandra Sarchi: «Del resto, è diventata una corsa all’utero. In Thailandia, Ucraina o Lituania bastano 10 mila euro per trasformare le donne in macchine per partorire. Se praticata in questo modo, la gestazione per altri più che disumana diventa disumanizzante. Se sono io che faccio un figlio per un’amica, o una sorella, è un conto. Perché decido liberamente. Avere un figlio condiviso non è mai facile, certo. Ma perché no. Il problema è che i casi così sono pochissimi. Nella maggior parte delle situazioni c’è dietro una disparità economica. In Europa la gestazione per altri è proibita. Ma pensiamo ad altri Paesi avanzati: in Canada può essere solo gratuita, negli Stati Uniti no, è a pagamento in cliniche specializzate. Compri il corpo di una donna. Si firma proprio un contratto, con precise clausole che regolano la vita di una persona per i nove mesi di gravidanza. Se il bambino ha malattie o handicap i genitori sono liberi di non prenderlo, possono addirittura obbligare all’aborto. La gestante non può ritornare sui propri passi: se cambia idea, non può tenere il bambino. L’ho comprato, quindi il figlio è mio. È una forma di compravendita, un acquisto della vita. Da un lato hai delle persone ricche che possono permettersi di comprare un figlio e dall’altro delle persone povere che sono disposte a vendere il proprio corpo. Con la gestazione per altri, teoricamente, puoi avere cinque genitori: uno per l’ovulo, uno per lo spermatozoo, uno per l’utero e due che cresceranno il bambino, che però diventano gli unici responsabili».

In Italia la fecondazione eterologa è legale dal 2014. Ma non si può risalire al donatore come in Francia o in Inghilterra. Jessie non può presentarsi da Antonia per guardare in faccia le sue origini, «nell’ostinata convinzione che chi sei implica: di chi sei, e da dove vieni», come scrive Alessandra Sarchi. Una necessità che non riguarda solo la sfera personale, fra l’altro. Può essere importante per evitare matrimoni fra consanguinei o per individuare malattie genetiche.

«Viviamo un momento di grandi rigurgiti di un’idea conservatrice intorno al corpo delle donne», dice Alessandra Sarchi, «quindi questi argomenti sono tabù. Manca una giurisdizione complessa, manca un dibattito serio, libero da pregiudizi. È ancora un tabù il lato oscuro della maternità, figuriamoci il resto». Alessandra Sarchi prende ad esempio i romanzi “Cattiva” di Rossella Milone e “Matrigna” di Teresa Ciabatti: «Nel materno c’è tanta oscurità, ma viene poco esplorata dalla letteratura», dice.

Sarchi non si tira indietro. Perché nel libro c’è una controstoria, simmetrica e speculare all’altra: Antonia si ritrova fra Jessie, un figlio sconosciuto con cui ha solo un legame biologico, che la cerca e Anna, una figlia partorita e cresciuta che la rifiuta, rifiutando il cibo.

«Dare la vita è un potere. E l’anoressia toglie questo potere. Qui, di nuovo, abbiamo un grosso problema culturale. L’anoressia generalmente si riconduce a un rapporto conflittuale con la madre. Ma io ho conosciuto molte anoressiche e ho notato che le madri e i rapporti sono tutti diversi. Voler dare la colpa alla madre è un prodotto culturale di una società maschilista. Perché non al padre? L’unico dato certo è che è una forma depressiva che si manifesta con un rifiuto del potere della vita, intesa come nutrimento, crescita, accudimento e relazione con l’altro. È anche una malattia generazionale legata alla grande pressione sul corpo inteso come immagine».

Ma torniamo al problema culturale, che è alla base del libro, come il ghiaccio sommerso in un iceberg (metafora esplicitamente emersa parlando di questi temi): la nostra società, ancora troppo lontana dalla parità di genere.
«Anche nei Paesi più evoluti, la donna ha un potere molto limitato nella sfera pubblica. Il suo potere è tutto relegato alla sfera privata», dice Alessandra Sarchi. «C’è una retorica insopportabile intorno alla maternità che è poi la retorica di chi vuole relegare la donna a quel ruolo. Non a caso la simbologia legata al materno è una simbologia di potere. Serve come compensazione: un altro potere alla donna non è concesso. Oltretutto è impossibile non avere potere, quando ti prendi la responsabilità di un essere umano come madre. E questo fa paura, perché è difficile dosarlo. A volte penso che la maternità sia la fondazione di una dipendenza che non finisce mai».

«Pensi di nutrire tua figlia, facendo tutto quello che non hai fatto per colui che avrebbe potuto essere tuo figlio, poi un giorno ti domandi se invece per tutto questo tempo non ti sei nutrita di lei, l’unica che può chiamarti mamma, l’unica che può darti, e toglierti, un ruolo», si legge nel romanzo. Ed ecco che si apre il baratro davanti al nucleo del discorso, l’ovulo donato, che pende sui personaggi come nella pala di Brera l’uovo di Piero della Francesca sulla sacra famiglia.

Il dono di Antonia ha spazzato via tutti gli stereotipi e ha aperto il campo a domande più complesse, ha spostato un confine. Tanto che lei, subito dopo, ne ha avuto paura. «Avevo paura di vederti, di vedere qualcosa che non sarebbe stato mio, che sarebbe cresciuto in un mondo che non mi apparteneva», confesserà Antonia a Jessie (suo figlio o no?). «Non volevo sciupare il mio dono con la gelosia. Si può anche non essere all’altezza di un proprio atto di generosità. Io non lo sono stata».

Come i palazzi di Los Angeles che mostrano una facciata e poi, se ci giri intorno, svelano un retro completamente diverso, anche le famiglie hanno un retro che tendono a nascondere. È il destino di Jessie: sua madre, Myrtha, dopo avere scoperto di avere un cancro al cervello, gli consegna una verità che ha conservato per ventisei anni. «A lui è toccato proprio così: la paura di perdere una madre, quella di trovarne un’altra, e non sapere più, alla fine, cosa sia una madre».

Un confine non più chiaro neanche ad Antonia, quando finalmente riesce a tirare fuori il suo segreto e proprio parlando con il segreto stesso, in carne e ossa. «Antonia prova sollievo, anzi: a raccontare prova un piacere che è liberatorio e imprevedibile, sa di essere sfrontata, di dire cose sfrontate, che forse si dovrebbero tacere a un figlio, ma Jessie è meno, e insieme, più di un figlio». «Intanto il tempo di tutta un’altra vita ha lambito il suo, quella vita materiale da cui è stato così facile separarsi, ventisei anni prima, e che pure è cresciuta come un’ombra dentro di lei». Perché spostare i confini della maternità significa spostare i confini della vita, e tutto va ripensato. Questo è il dono di Alessandra.