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Roma, trent'anni fa: quando il mondo dei migranti sbarcò alla Pantanella

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Era il 1990. Il Paese pensava ai Mondiali di calcio. Ma un palazzo della Capitale occupato da migliaia di asiatici e africani anticipava la grande questione dei decenni successivi. Lo capirono solo un attivista di sinistra e un prete, don Luigi Di Liegro

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Sembrava lontano da tutto, oggi sarebbe stato il set perfetto per il circo mediatico, che però trent’anni fa ancora era poco affollato. Lo vedi dalla tangenziale di Roma, il palazzo a tinte pastello l’azzurro, il celestino, l’avana, sulla via Casilina che anticipa l’ingresso del quartiere del Pigneto. E nessuno potrebbe immaginare ora che nel 1990 fu definito in altri modi. Lager. Angolo di terzo mondo. Città degli stracci. Bomba etnica. Monumento al degrado. Covo di terroristi. Hotel della vergogna. Universo orrendo. Inferno.

Loro, gli abitanti dell’inferno, preferivano chiamarlo diversamente. Shish Mahal. In lingua urdu, una delle 43 lingue che si sentivano parlare nella Babele di via Casilina, significa la Casa di cristallo. Forse per via delle grandi vetrate sfondate che si arrampicavano sul palazzone dell’ex pastificio abbandonato da decenni, la Pantanella. Forse perché Shish Mahal era una di quelle fabbriche del Novecento cadute nel degrado, un relitto del passato. Ed era invece un pezzo del nostro futuro. Anticipava il nostro presente.

Estate 1990. L’anno dei Mondiali di calcio in Italia, le notti magiche inseguendo un gol in cui gli italiani sognavano Totò Schillaci e Roberto Baggio. L’anno in cui arrivarono i primi telefoni cellulari, gadget da sfoggiare nelle tribune d’onore degli stadi. In quell’anno, a Muro di Berlino appena caduto, l’immigrazione in Italia era un tema da addetti ai lavori, sembrava interessare poche intelligenze illuminate. Era stata appena approvata la legge Martelli, la prima a regolarizzare gli immigrati, dal nome del ministro della Giustizia socialista del governo Andreotti che l’aveva firmata. Allo scadere della sanatoria, il 30 giugno 1990, i dati ufficiali parlavano di poco meno di un milione di immigrati extracomunitari presenti sul territorio italiano e di 220 mila usciti dalla clandestinità grazie al decreto.

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Fu in questo contesto che la Pantanella divenne un caso nazionale. In vista dei Mondiali era stato sgombrato dal centro storico di Roma un esercito di senza fissa dimora e di barboni. Tra loro, anche gli ultimi arrivati: gli immigrati che solo da poco i giornali si erano abituati a chiamare extracomunitari. Quando gli immigrati pakistani, indiani, raggiunti dalle comunità del Bangladesh e poi del Maghreb, cominciarono a trasferirsi nell’ex pastificio abbandonato in pochi erano preparati. Le istituzioni, la politica, la stampa, la società si ritrovarono disarmate di fronte a qualcosa che non conoscevano, non capivano, non avevano visto arrivare.

Nelle prime settimane d’estate, la popolazione della Città di cristallo aumentò. Il primo agosto 1990 gli ospiti della Pantanella risultavano essere 1.795: Pakistan, Bangladesh e India raccoglievano il 90 per cento dei presenti. Due mesi dopo diventeranno 2.332. Alla fine oltre tremila persone, 3.532, saranno passate per Shish Mahal. Provenienti da quindici paesi di due continenti (Asia e Africa). In gran parte giovani: il 92 per cento in età compresa tra i 18 e i 39 anni. Istruiti: la maggior parte con un corso di studi di almeno dieci anni e con una preparazione professionale: operai, meccanici, imbianchini, sarti, calzolai, falegnami, cuochi.
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Le foto scattate in quei mesi da Stefano Montesi, che accompagnano questo articolo, ci mostrano questi giovani immigrati di trent’anni fa: ragazzi di venti anni con lo sguardo acquoso del vecchio, con le coperte avvoltolate al collo per difendersi dal freddo, precocemente immalinconiti. Con il barbiere e la moschea in uno stanzone del seminterrato, la scuola di lingua e la redazione del giornale “Bangla Barta”.

C’erano anche due italiani, in mezzo a migliaia di migranti. Due italiani del sud, due uomini dall’apparenza fragile e dalla volontà tenace. Il direttore della Caritas romana don Luigi Di Liegro. Quando morì, Alda Merini scrisse che era stato «una fiaccola accesa nel vuoto dove c’è l‘oscurità più errabonda». Nel 1990 don Luigi aveva sessantadue anni, da più di dieci dirigeva la Caritas di Roma, l’istituzione della Chiesa che si occupava delle opere di carità nella capitale. Era nato a Gaeta, città di mare sulla costiera pontina, ottavo figlio in una famiglia di pescatori. Il papà Cosmo era un emigrato, «naturalmente illegale», raccontava, «entrato da clandestino in America».

Don Luigi era prima di tutto un prete. Un prete all’antica, un sacerdote che aveva sempre dimostrato nei confronti della Chiesa una fedeltà assoluta. Ma che tante volte nella sua vita si era trovato a ribellarsi alle logiche del potere per difendere il Vangelo in cui credeva, quello delle beatitudini: era stato povero di spirito, mite, costruttore di pace. Aveva avuto fame e sete di giustizia, non si era mai saziato. Nel suo ufficio, dietro la scrivania, aveva attaccato una grande cartina di Roma divisa in settori, circoscrizioni, zone, quartieri, con tanti spillini colorati: di ogni puntino lui conosceva tutto, gli autobus su cui si spostava, le scuole, le parrocchie, i centri sociali, le sofferenze, le rivendicazioni, le speranze.
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A Roma governavano i democristiani e poi i comunisti e poi di nuovo i democristiani e i socialisti e lui con i politici era spigoloso, rude, intransigente. Mentre con gli amici era dolce come l’inflessione mediterranea che accompagnava la sua voce. Don Luigi attraversava la città in fiamme, la sua crescita scomposta, il suo degrado, per intuire le novità non sfogliava rapporti sociologi: preferiva scrutare i volti dei nuovi poveri, quelli invisibili alle statistiche e ai sondaggi.

Lui detestava l’immagine misericordiosa del professionista della solidarietà come «spazzino degli avanzi della società capitalista», quel volontariato che già all’epoca cominciava ad andare di moda, che presenzia alle maratone della bontà televisiva, che non mette mai in discussione i meccanismi che generano la disuguaglianza, che dice di voler dare voce ai poveri e invece reclama soprattutto spazio per se stesso. Nel 1988 aveva dovuto affrontare la prima guerra contro un pezzo di città dopo la decisione di aprire a Villa Glori, nel cuore del quartiere-bene dei Parioli, una casa per malati di Aids, la prima a Roma. Aids era parola impronunciabile, come la peste. La scelta aveva provocato l’insurrezione di Roma nord. Comitati di quartiere, raccolte di firme, perfino la spaccatura nella comunità ecclesiale, con una parrocchia che aveva protestato per il pericolo rappresentato dai malati di Aids per i residenti e per le loro famiglie.

Alla Pantanella don Di Liegro c’era ogni giorno. Lo si riconosceva con gli occhiali scuri mentre vagava con una mano tra i capelli. Il gesto tipico di chi è colto da un momento di sconforto, quasi di disperazione. Ma anche un atteggiamento di fretta, l’urgenza di uno che sa che non c’è tempo da perdere, che bisogna fare qualcosa, subito. Portò una delegazione di immigrati in piazza San Pietro sotto un grande striscione: “Italiani e immigrati Solidarietà Pace Fratellanza” per l’Angelus del Papa. E quella domenica Giovanni Paolo II non li deluse: «Comprendo il vostro disagio e la vostra sofferenza, condivido il vostro dolore».

Accanto a don Luigi c’era Dino Frisullo, il secondo italiano. Era arrivato da poco a Roma dalla Puglia, dove aveva conosciuto e lavorato con il vescovo Tonino Bello, era il responsabile immigrazione di Democrazia Proletaria. La sigaretta tra le labbra, mentre c’era l’ennesima azione dimostrativa da organizzare, l’ennesimo volantino da scrivere, il megafono a tracolla perché se sentite la mia voce, sembrava dire, se si sente una voce, se c’è la parola, allora si può andare. Con Di Liegro si erano conosciuti alla Pantanella. «Vidi per la prima volta don Luigi seduto per terra con cinquanta pakistani nell’immenso stanzone ingombro di vetri, escrementi e rifiuti. Si guardò intorno, sondò rapidamente il luogo e gli uomini, poi si volse ai giornalisti: “Questi nostri concittadini dovranno rimanere qui, non hanno alternative. Il Comune ne prenda atto, la polizia stia tranquilla”. Mi dissi: vorrei essere amico di quest’uomo”».

In quelle settimane di agosto 1990 Saddam Hussein ordinò alle truppe dell’Iraq di invadere il Kuwait. L’inizio della prima guerra del Golfo e dei successivi disastri. Intanto, finita l’estate, nella Pantanella si cominciò a morire. Mohammad Aslam Anwar, pakistano, 28 anni, morì fulminato da un infarto mentre aspettava il permesso di soggiorno. «È morto di crepacuore», scrisse il coordinamento dei lavoratori asiatici.

Ai primi di ottobre Maznovid Fam, un ragazzo tunisino di 22 anni, si spense dentro una coperta di cartone in un angolo della Pantanella, per una broncopolmonite. E poi gli episodi di violenza. Il 21 settembre, lo stupro di una giovane tossicodipendente romana. Il 3 novembre, l’episodio più grave, sei ore di guerriglia tra asiatici e africani per la divisione del territorio, vecchi occupanti contro nuovi, a colpi di pietre, bastoni e coltelli. E ancora: le rivolte dei quartieri di Roma che la giunta comunale di Roma aveva individuato come terminali di nuovi centri di prima accoglienza da costruire.

«La Città sta vivendo drammaticamente una dialettica sociale che ruota sul problema dell’accettazione o del rifiuto di tanti portatori di diversità con cui si trova a dover vivere», commentò Di Liegro. «Gli immigrati, i nomadi, i portatori di handicap, i tossicodipendenti, i malati di Aids, gli anziani soli, gli adolescenti fuori famiglia: tutti coloro cioè che non possono essere partecipi della crescita economica e dei meccanismi che la determinano».

La Pantanella era questo, l’annuncio di un mondo nuovo. Di fronte al quale erano tutti tragicamente impreparati. Si arrivò all’epilogo. La vicenda iniziata durante l’estate dei Mondiali si concluse mentre il mondo guardava in diretta tv un videogame verdino, i primi bombardamenti americani su Bagdad, il prologo dello scontro delle civiltà che era la vera madre di tutte le battaglie, anche di quella minore che si combatteva in via Casilina. Già da qualche giorno alcuni immigrati si sentivano chiamare Saddam, con il nome del nuovo nemico. Il 23 gennaio 1991 all’alba scattò l’operazione sgombero della Pantanella.

Dopo tante promesse e rinvii, si tornò al punto di partenza. Gli immigrati erano un problema di ordine pubblico e come tale andava affrontato. L’irruzione di poliziotti e carabinieri, milleduecento persone portate nelle caserme e poi trasferite fuori, oltre il raccordo anulare, lontano dalla città. La prima volta della grande illusione della politica: basta semplificare, respingere, escludere per risolvere i problemi. Quella mattina bruciò ciò che restava nell’accampamento, la moschea, l’ala dove dormivano i nordafricani. La Città di cristallo andò in fiamme: di quello che era stato rimasero mucchietti di stracci e di plastica nera. «Ho visto persone sotto choc. Prelevate come se si trattasse di una deportazione», denunciò don Luigi. «Questa storia è finita nel peggiore dei modi».

Ma non era finita. Era solo l’inizio. Tante altre Pantanelle seguiranno. Altre spiagge, altri sbarchi, altri ghetti, altre deportazioni. E ovunque si ripeteranno le stesse scene. Giovani uomini umiliati, costretti a difendere la loro dignità con la fierezza dello sguardo. Donne e bambini in lacrime. Autorità distratte. Città inospitali. Umanità restituita dal mare dopo aver sognato il miracolo. Ma anche vite da abbracciare, diritti da difendere, senza confini e frontiere.

La Pantanella fu queste due cose insieme. Il ghetto in cui la Città ufficiale aveva respinto gli indesiderati, ma anche, per un breve tempo, la Città del mondo. Così si sentirono di abitarla don Luigi Di Liegro e Dino Frisullo. Di quei mesi restò una lezione per il prete: l’ingiustizia si sconfigge con lo studio, con la conoscenza. Ecco perché si intestardì con la Caritas per far uscire puntualmente, ogni anno, un dossier statistico sull’immigrazione. Una pioggia di numeri mai aridi, per sfatare i luoghi comuni sull’affollamento, le malattie, la criminalità. Tutto quello che ingiustamente ricadeva sugli immigrati e li trasformava in persone di serie B.

Si spense una domenica di ottobre del 1997 in un ospedale di Milano dove era stato ricoverato per problemi cardiaci. La notizia della sua morte arrivò mentre stava per partire la marcia della pace Perugia-Assisi e i pacifisti erano migliaia e migliaia. Quando si venne a sapere che don Luigi non c’era più, nel grande corteo colorato calò il silenzio. E Roma restò senza il suo padre duro e tenerissimo. Lo ricordarono gli uomini delle istituizioni e della Chiesa che non lo avevano amato. Ma l’altra città, la sua, si diede appuntamento dove le vie non hanno nome e le case non hanno numero, a Centro Giano, un quartiere sulla strada per Ostia, vicino al mare ma dove il mare non si vede, vicino a Roma ma dove la grande città è straniera e feroce. Una periferia, come tante ne aveva frequentate il prete di cui quella notte si festeggiò la sua morte. Sì, si festeggiò: fecero festa per un giusto in Paradiso bambini e anziani, il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick in fondo alla sala, senza scorta e assorto.

Anche Dino parlò, e intanto si accese l’ennesima sigaretta. La cenere cadeva sul pavimento della piccola chiesa, davanti alla bara, ma quella notte tutto era consentito. Disse che le scarpe di Luigi avrebbero dovuto lasciarle com’erano, senza ripulirle, polverose, sporche del fango delle baraccopoli e dei campi nomadi, di mille sentieri d’Italia, di Bosnia e di Albania. Lui, ateo e comunista, disse che avrebbero dovuto conservarle in una teca, come una reliquia, come si faceva in tempi antichi con i santi medievali. Ieri il lembo di un mantello, un pezzettino di sandalo. Oggi, le scarpe. Per non dimenticare un santo metropolitano. Qualche anno dopo se ne andò anche Frisullo, giovane, per un male terribile. E Vauro disegnò due immigrati su una nuvoletta che chiamavano il loro amico: «Ehi, Dino, vieni, qui non serve il permesso di soggiorno». I cittadini di Shish Mahal aspettano ancora.

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