Cosa accade se il Coronavirus arriva in un paese in guerra? Cosa accadrebbe in caso di contagio in un campo profughi? Abbiamo chiesto alle persone che in questi anni hanno accompagnato i racconti de L'Espresso nelle zone di crisi del Mediterraneo, Medio Oriente e Nord Africa, di raccontarci in prima persona cosa significhi in un paese in conflitto la prospettiva di una epidemia. Queste le loro parole (A cura di Francesca Mannocchi)

Tripoli -  Caro Espresso, da un anno siamo in ginocchio. Con la guerra civile migliaia di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case e così anche le persone migranti, che hanno dovuto lasciare i posti, spesso malmessi, in cui vivevano.
 
Molti civili hanno trovato riparo nelle scuole, che ora naturalmente sono sovraffollate.
 
Pensare a un distanziamento sociale negli alloggi degli sfollati non è solo illusorio, qui, è irrealizzabile.
 
Le condizioni dei migranti sono disperate. Molti di loro hanno bussato alle porte dei centri di detenzione perché non avevano altro posto dove andare.
 
Chi aveva prima la fortuna – se così possiamo chiamarla - di avere una casa, l’ha persa perché distrutta dalle bombe o perché costretto ad abbandonarla in fretta per salvarsi la vita, e in molti casi parliamo di baracche senza acqua o stanze in cui vivevano tre, quattro famiglie insieme, con un solo bagno e condizioni igieniche al limite della vivibilità.
 
Chi resta fuori, chi prova a vivere in strada si espone al rischio delle bombe.
 
In queste disgrazie, tra i mali - perché non c’è un bene ora a Tripoli - ad alcuni le carceri sono sembrate il male minore.
 
E le famiglie di migranti, soprattutto quelle con bambini, hanno chiesto di essere riportate nei centri di detenzione. Pensavano che almeno lì, forse, sarebbero stati risparmiati dalle bombe.
 
Dieci giorni fa è stato diagnosticato il primo caso di Coronavirus a Tripoli, il paziente è un uomo di 73 anni, da poco tornato da un viaggio in Arabia Saudita.
 
Aveva la febbre alta, è stato trasferito in ospedale, è risultato positivo al test.
 
Oggi mentre ti scrivo, i casi ufficiali sono otto.
 
Sottolineo la parola ufficiali perché in un paese in guerra avere dei dati ufficiali è pressoché impossibile. Temiamo che i casi siano molti di più, naturalmente, in molti ci stanno chiamando, come MezzaLunaRossa, per chiedere spiegazioni sui sintomi. Ma non c’è modo di testare le persone, è semplice. Tragico e semplice.
 
Un pericolo sopra l’altro sulle vite dei libici, quando cala il sole sentiamo scivolare via ogni forma residua di speranza.
 
Qualcuno, i più giovani soprattutto, cerca di impegnarsi in campagne di sensibilizzazione.
 
Ma per quanto possiamo sensibilizzare i cittadini libici a restare in casa, sappiamo che non abbiamo modo di alleviare le pene dei migranti nei centri di detenzione, nel centro di Dhar El-Jebel a sud di Tripoli, lo scorso anno risultano 22 morti di malattie. Nel centro di Beni Walid sono a decine i casi di tubercolosi, non arrivavano medici nemmeno prima del coprifuoco, immaginate ora che nessuno esce più di casa, i centri sono abbandonati a se stessi e le organizzazioni internazionali non possono lavorare.
 
Possiamo sterilizzare le strade, ma non possiamo fare niente per far fronte ai contagi nelle carceri, nei centri di detenzione, nei capannoni dove sono stipati i migranti.
 
Abbiamo il dovere dell’onestà, i medici libici si sono spesso rifiutati di curare migranti, il nostro sistema sanitario è al collasso dopo quattro guerre in dieci anni.
 
Se il virus si diffondesse qui non faremmo in tempo a contare i morti. Forse finirebbero nell’oblio come le decine già morte di tubercolosi in questi anni, senza che dottori e medicine facessero in tempo a raggiungerli.
 
Guardiamo tutti con pena, dolore e solidarietà a quanto accaduto in Cina e ora da voi, in Italia.
 
Quando accendo la televisione e ascolto il bollettino dei vostri connazionali morti a causa del virus penso anche immediatamente al vostro sistema sanitario. Che è virtuoso, accessibile a tutti. Quello che cerco di far capire alle persone, al nostro governo ma anche ai cittadini, è che non siamo in grado di fronteggiare le urgenze che ci impone la guerra, figuriamoci un contagio di massa.
 
Due settimane fa fa il governo ha chiesto un cessate il fuoco umanitario, ma solo qualche giorno fa dalla finestra di casa mia a Tripoli vedevo colonne di fumo dei bombardamenti, hanno colpito anche la città vecchia della capitale.
 
Doveva succedere prima o poi. Le guerre, d’altronde, non si fermano di fronte a niente, neppure di fronte ad un nemico oscuro come un virus.
 
Centinaia di persone, ancora, ogni giorno, cercano di mettersi in fuga dalle linee del fronte, a giorni alterni una pioggia di mortai cade sulla città.
 
Fuggire, ma dove? Le persone semplicemente non sanno dove andare.
 
Ogni mattina esco di casa con i colleghi della Libyan Red Crescent a portare supporto, come prima della guerra e prima del Coronavirus. Abbiamo paura.
 
Una paura che non ti so descrivere. Perché la guerra riuscivamo a circoscriverla nelle nostre paure, e nelle nostre parole. Questo nuovo pericolo no.
 
Fino a un mese fa guardavamo l’Europa come si guarda un essere forte, solido.
 
Ora guardiamo l’Europa spaventata e colpita e abbiamo paura della vostra fragilità. Perché la nostra sarebbe dieci volte più devastante.
 
Se stati europei come il vostro hanno bisogno di aiuti dalla Cina, di aiuti esterni all’Italia e esterni all’Europa, mi chiedo, ci chiediamo: succedesse a noi, se fosse così pervasivo da noi il contagio, chi ci aiuterebbe?
 
La risposta, il timore, è uno solo: nessuno.
 
E’ l’angoscia, insensata, di vivere in un paese in cui entrano quotidianamente nuove armi ma non entrerebbero barelle o respiratori in caso di bisogno.
 
Il Primo Ministro Sarraj ha imposto il coprifuoco.
 
Molte persone con gli uffici chiusi non sono riuscite a ritirare i propri stipendi. Qualcuno non riceveva paga già da mesi. Per molti significa non poter fare scorte di cibo, e sapete bene quanto – con la paura di un contagio – anche solo sapere di avere più cibo di quanto ne serva allevi la preoccupazione.
 
Abbiamo paura.
 
Non che arrivi il virus, abbiamo capito che questo è inevitabile. E’ già qui tra noi.
 
Abbiamo paura perché sappiamo che non possiamo reggere.
 
Non possiamo prenderci cura dei feriti della guerra e della polmonite del coronavirus.
 
Non possiamo curare chi non ha più un arto o è colpito dalle schegge e anche chi arriva in deficit respiratorio.
 
Semplicemente non ci sono abbastanza posti letto, abbastanza ospedali e non ci sono medici.
 
I nostri dottori e infermieri continuano a morire al fronte, negli ospedali da campo.
 
Dai centri di detenzione nessuno usciva, prima, ma ora nessuno entra a portare aiuto e beni di prima necessità.
 
Migliaia di persone rischiano di restare senza cibo e acqua ben prima di restare senza medicine.
 
Ma figuriamoci se qualcuno si cura delle condizioni igieniche di migliaia di persone detenute.
 
L’ultima volta che ho parlato con un migrante, eritreo, in un centro di detenzione stava tremando di freddo e fame. E’ tubercolotico. Morirà, probabilmente.
 
I centri di detenzione qui in Libia rischiano di diventare luoghi in cui esseri umani moriranno e noi non avremo modo di sapere di cosa sono morti.
 
E i libici. Ai libici viene chiesto di non muoversi di casa.
 
E noi restiamo in casa, obbediamo. Ma sulle nostre case cadono le bombe.
 
Asaad al Jafeer, Tripoli, 25 Marzo 2020

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