La ex capitale dell'auto si è trasformata in un incubatore di musicisti, artisti e creativi. Con una vita notturna da fare invidia a Milano. Ma non è tutto oro e crescono anche le tensioni sociali

Era la città-fabbrica, Torino, tute blu e cortei di bandiere rosse: ora pare di vivere dentro una commedia musicale, quei film in cui c'è sempre qualcuno che canta, suona e balla. A squassare piazza Vittorio per due giorni dalle 5 di pomeriggio alle 3 di notte non sono cortei operai o gli antagonisti di Askatasuna e dei centri sociali, quelli del fumogeno contro Raffaele Bonanni alla Festa del Pd, ma i 40 gruppi musicali che si danno il cambio sul palco del Reset festival, famosi alcuni e altri di belle speranze, punta emersa di un reticolo senza pari in altre città: "Quanti gruppi? Tremila. Quattro o cinque persone a gruppo, meno quelli che suonano in più di uno, saremo almeno 12 mila musicisti", contano Daniele Citriniti, bassista dei Moka Town, e Domenico De Biasio, dei Mon-Key's (loro il brano e il clip "Torino" che spopola su YouTube).

Finita Reset tocca al Boom Boom Fred per il 50 di Buscaglione e una sventagliata di complessi a rifare "Portofino" e "Eri piccola", poi a Movement, edizione sotto la Mole del grande festival di musica elettronica di Detroit dove peraltro, a maggio, i musici torinesi gestivano in proprio uno dei quattro palchi, a un pugno di isolati dall'ufficio dove l'uomo del Lingotto Sergio Marchionne ridisegnava le sorti della Chrysler.

Certo, a campare di canzoni sono una minoranza, i più tra loro sbarcano il lunario con un posto da professore o da usciere o lavori saltuari: ma generano e nutrono un indotto che poco ha da invidiare a quello della componentistica auto: una ventina di scuole musicali, più di 30 sale prova come il SubMixPro, BluMusica e RockLab, studi di registrazione e di post-produzione, lavoro per fonici, arrangiatori, venditori di strumenti e di elettronica, videomakers per i clip che prima o poi un gruppo butta su YouTube e quant'altro.

Ma cosa ne è della città dell'auto se i musicanti sono ormai più del doppio dei 5.840 operai Fiat (sui 55 mila di vent'anni fa) rimasti a Mirafiori, lo stabilimento cuore e simbolo di un secolo d'industria e di lotte? Cos'è diventata Torino, sabauda senza più Savoia, industriale con sempre meno industria, operaia con la classe operaia in ritirata numerica e politica, sindacale con la mitica Quinta Lega che pare un patronato per la compilazione dei modelli 101? Si attrezza forse a fare a meno della Fiat tappando i buchi con la musica, il cinema, le serie tv, le software houses, i musei, il turismo, la Bella Rosina, Eataly e lo Slow food?

Prima di eccitarsi troppo, conviene ascoltare Antonio Mammone e Sacha Contu, delegati Usb, Unione sindacale di base: "5,30 euro netti l'ora, qualcosa in più dal prossimo gennaio, guadagniamo dalla cooperativa noi custodi alla Reggia di Venaria, riaperta nel 2007. Dobbiamo conoscere le lingue, e siamo dei privilegiati: alla Mole e all'Egizio prendono 4 euro e 15 centesimi". Non metti su famiglia, con salari del genere. Coi piedi di piombo ci va anche Sergio Chiamparino, sindaco in scadenza, ormai lanciato come possibile candidato premier per il centrosinistra, a parte Bersani l'unico papabile non "straniero" di un Pd dalla labile identità: "Non è che Torino può vivere solo di turismo culturale. La sua forza è e resta nell'industria: magari non più le tute blu sporche di grasso, ma avionica, meccatronica, aerospaziale, servizi alla produzione".

Quanto alla Fiat, elencati modi e ragioni per cui conta che resterà, anche monsieur de Chiamparin (come qua francesizzano, i finale pronunciata come e larga) ammette: "Certo, non si può escludere in assoluto l'ipotesi che la Fiat lasci Torino". Ecco, l'ha detto. Il tabù, la frase quasi impronunciabile. Al piano nobile del Lingotto rispondono che "l'immanenza Fiat nella città è finita almeno dalla scomparsa dell'Avvocato, non abbiamo più alcun interesse a giocare un ruolo politico, né ci vengono più a chiedere di farlo". Quanto a Mirafiori, è il centro nevralgico, il cervello dell'auto, progettazione, ingegneria, ufficio stile, prove, collaudi, sta tutto lì, chiuderla non ha senso. Come stabilimento è piccolo? "Torneremo a produrci 300 mila vetture l'anno (oggi sono 180 mila), ma l'intero investimento di 20 miliardi nell'auto entro Fabbrica Italia è legato al raggiungimento di una normale governabilità degli stabilimenti". Intanto, però, cassa integrazione per tutti dal 18 ottobre per tre settimane. Non sembra il caso di appenderci ancora il futuro della città. Anche perché il grosso di ciò che tutti hanno a lungo aspettato o paventato è già successo.

La Fiat si è drasticamente ritratta dalla città e dal suo palcoscenico: persino delle elargizioni non è rimasto che un piccolo contributo al Teatro Stabile. Torino ha già cambiato pelle: anche se "forse l'anima s'è come dissolta, o almeno non sai più dove cercarla", nota un osservatore disincantato quale Saverio Vertone. A Torino ci si diverte, nella bolgia notturna ai Murazzi sul Po, nel quadrilatero delle piazze e viuzze dietro Palazzo di città piene di locali trendy affollati di giovanotti e giovanotte dalle mises colto-sexy, e nel centro tirato a lucido, ora che finalmente c'è il metrò: non così male, per quella che Flaubert giudicava "la città più noiosa del mondo dopo Bordeaux" e Sade lo stesso perché qui "il cortigiano è fastidioso e il cittadino triste"; e che negli anni Ottanta era deserta già alle 11 di sera, per paura o insipienza o perché fuori casa non c'era nulla da fare.

In compenso è il Comune più indebitato d'Italia, 5.781 euro a cittadino, un terzo in più di Milano, il doppio di Roma: computa Chiamparino che dalla sua elezione nel 2002 il debito è cresciuto di un miliardo, "ma sta calando e comunque va valutato in rapporto all'uso che del denaro s'è fatto: noi abbiamo investito 600 milioni per la metrò e 400 con le Olimpiadi in parcheggi, rifacimenti strade e piazze, beni culturali; mai per le sagre della salsiccia o per ripianare i conti delle municipalizzate".

Non è stata solo chirurgia estetica: qualcosa deve aver inciso nel profondo. Dice Zena El Khalil, artista e scrittrice libanese (sua la grande palla luminosa con la scritta Allah in arabo nella chiesa valdese a fine 2009, "Beirut I love you" l'ultimo suo libro appena uscito per Donzelli) che Torino, dove vive sei mesi l'anno, "è molto più internazionale di Beirut, c'è una fantastica "art community" fra i 20 e i 30 anni, hai davanti agli occhi la Storia e le persone hanno orecchie per le tue storie". Non sembra davvero la stessa città che ci mise vent'anni ad assorbire, malamente, l'immigrazione dal Sud d'Italia e altri dieci a dannarsi perché quella dal Sud del mondo aveva trasformato il centrale quartiere San Salvario in banlieue di clandestini e covo di tossici, e il Balòn, il mercato di Porta Palazzo, in mattatoio islamico a cielo aperto.

Ora al Balòn svetta il padiglione in vetro disegnato da Massimiliano Fuksas e San Salvario l'hanno militarmente occupato designer e giovani architetti. Forse l'occhio di Zena è troppo benevolo, ma i torinesi, per inclinazione disciplinati soldati di eserciti che non ci sono più (il Regno, la Fiat, la Classe, il Partito, il Sindacato), proprio ora che più incerto è il futuro hanno inaspettatamente smesso la litania dello scippo, quella sindrome dell'abbandono in cui si macerano da quando 145 anni fa persero la capitale, il re, la corte e il lauto indotto di valletti e fornitori, e più tardi il cinema, che qui nacque nel primo Novecento e presto s'involò a Roma.

Ora il cinema è di nuovo un'industria, e come cuore ha il simbolo di Torino, la Mole Antonelliana dove dieci anni fa ha preso sede il Museo del Cinema, primo in città con 600 mila visitatori l'anno. "Come Museo", illustra Alberto Barbera che lo dirige dopo l'esperienza della Mostra di Venezia, "gestiamo il multisala Massimo, organizziamo cinque mostre l'anno, il Torino film festival, la rassegna gay "Da Sodoma a Hollywood" e Cinemambiente, che da prodotto di nicchia è diventato popolarissimo. E come TorinoFilmLab finanziamo opere prime e seconde, dalla sceneggiatura alla realizzazione.

La Film Commission, modello poi copiato da varie regioni, assicura servizi e strutture a tassi agevolati alle produzioni che scelgono Torino: 290 finora, cinque in questo periodo, con una ricaduta economica e occupazionale di tutto rispetto". Altro tassello, il Cineporto in un fabbrica abbandonata in Borgo Dora: è uno spettacolo, 9 mila metri quadri di magazzini, sartorie, depositi di attrezzature, uffici e spazi per casting. Il piede zoppo sono i Lumiq Studios, i Fert dell'epoca del muto, tre teatri di posa alla periferia nord-ovest, sottoutilizzati: ma Virtual reality li sta riconvertendo in centro di produzione e postproduzione digitale, effetti speciali per il cinema ma anche per le imprese. Come per la bomba, se fai massa critica, il resto viene da sé.

Sicché un filmaker come Gigi Roccati ("La classe operaia va all'inferno" sui morti alla Thyssen, "Road to Kabul") può amare Torino "ottima cucina di idee e isola felice" (da fucina del sol dell'avvenire a cucina del presente sarà una perdita o un guadagno?) e affermare convinto: "Ho avuto la fortuna di nascere a Mirafiori, in faccia ai cancelli Fiat, e di scorrazzare in bici tra i cortili operai, un background che mi ha consentito di vivere e lavorare ovunque".

Che i fili della storia si ricuciano così, imprevedibilmente, non è poi tanto strano, a Torino. Le cose si tengono, alla fine. Persino quelle nate per contrastare, spezzare, ribaltare. Avete in mente gli antagonisti del centro sociale Askatasuna, i brutti e cattivi del fumogeno contro Bonanni? Il Comune voleva sfrattare Radio Blackout, loro hanno montato un concerto di protesta in piazza Castello con AfricaUnite, Subsonica, Linea77, gli stessi che trovi al festival sponsorizzato dal centro commerciale: ha funzionato, la radio vive. Sulla Fiom dicono che "ha smarrito la categoria amico-nemico", ma il presidente Giorgio Cremaschi va ai loro dibattiti e loro alla manifestazione Fiom di Roma del 16 ottobre. Praticano l'autoriduzione la quarta settimana del mese, ma con l'accordo del supermercato Conad del quartiere Vanchiglia. Askatasuna ha il suo gruppo d'acquisto, la sua "Estate ragazzi", il corso di alfabetizzazione per migranti, biblioteca, ludoteca popolare, palestra e corso di pugilato e una seguitissima scuola di capoeira, "danza degli schiavi brasiliani che, impediti dalle catene, mimavano i gesti di un combattimento per loro impossibile", raccontano Giorgio e Andrea.

Non è che anche loro dell'Askatasuna e dell'area antagonista, impediti dalle catene della crisi e dall'enorme potere di ricatto del padronato, mimano coi fumogeni uno scontro sociale che non c'è, un combattimento sognato ma impraticabile? S'incupiscono un po', quando glielo chiedi, snocciolano la lista degli arrestati, rivendicano che a farli crescere è sempre stato lo scontro, mai la mediazione, vantano una militanza appassionata, "mica come i giovani Pd senza spina dorsale che come servizio d'ordine devono pagare un'agenzia di security", e si fanno voce della Torino precaria ai limiti della sopravvivenza, contro la favola di "una Torino imbellettata con una patina di dinamismo".

Poi rispondono che, "in una situazione imparagonabile con quelli degli anni Settanta, noi cerchiamo a volte di far saltare il banco. Non per questo ci candidiamo a essere arrestati tutte le settimane. Siamo antagonisti, non suicidi". Molto torinese, far le cose per bene, martellare quando puoi, limare quando conviene. Il Faussone della "Chiave a stella" del torinese Primo Levi non avrebbe parlato diversamente.

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